Partiamo da lontano e da un personaggio molto noto chiamato Marshall McLuhan. Questo sociologo ebbe un’illuminazione nel lontano 1960: proferì che ogni media e relativo contenuto viene e verrà costantemente ri-mediato, ri-utilizzato (a volte ri-ciclato) dalle generazioni successive (che si serviranno di altri media e lo tramuteranno in nuove forme) entrando nel ciclico loop del “tutto torna”.
Questo editoriale non vuole essere la tipica critica alle nuove generazioni, che si ritiene manchino di genio e non siano più in grado di creare qualcosa di nuovo e originale, è solo un’osservazione sul come tutti noi, consapevolmente o inconsapevolmente, siamo al centro di un vortice di idee e contenuti già visti e sentiti, credendo invece di vivere in una nuova era, lontana dal passato e assolutamente unica.
La cultura “underground“, quel conteso terreno fertile per giovani e futuristiche idee e progetti, entra in questo gioco ri-mediato e lo fa seguendo lo stesso iter del suo antistante “mainstream“: sono i flussi di tendenza e l’economia a indicare a major, indies e produttori quali mode seguire, è il “music control” che determina la programmazione radiofonica che si limita alle “hit” affinché l’audience gratifichi gli inserzionisti, sono le viral chart su Spotify a suggerire chi va ascoltato in settimana.
Ce ne siamo accorti osservando le grafiche degli eventi e ascoltando le “nuove” uscite musicali. Spavaldi strizziamo l’occhiolino alla musica del Benin della metà degli anni 70, ingorde etichette si narra che facciano razzia di dischi nei villaggi africani presi dalla foga delle ristampe sconosciute provenienti dal continente nero. Condividiamo immagini di busti ellenici del periodo classico, quando l’ellenismo non resta che un ricordo dei banchi di scuola. Ci elettrifichiamo in flyer distorti e stroboscopici in stile warehouse party di Birmingham alla fine degli anni 80, ma in realtà stiamo andando a ballare la cumbia.
Atterrando su qualunque music store o negozio di dischi veniamo sommersi da suoni tropicali e melodie baleariche, agli eventi delle città ci si accorge che l’erba non si fuma più, oggi c’è la palma e la nostra camicia nera sancrata (perfetta due anni fa quando si ristampavano le chicche introvabili tra il noise, la wave e l’ industrial) non va più bene, oggi è il momento dei fiori e degli arcobaleni che già andavano di moda a Ibiza nei primi anni 90 e ancor prima in California negli anni 60.
Sì, perché oggi si ascolta la musica africana, esotica, tropicale. Ma andrebbe sottolineato che già David Byrne e Brian Eno si misero alla ricerca di nuovi ritmi e sonorità, così come la fusion dei Weather Report e di tutti i progetti musicali influenzati dalla crescente popolarità di Fela Kuti e del Reggae di Marley.
Fu la stessa ricerca di Paul Gauguin affascinato dall’esotico e forse la stessa soddisfazione con il quale il Vate andava fiero nell’esporre le sue “perle” provenienti dalle terre lontane.
Poi ci scontriamo con il ritorno al classicismo della Vaporwave (leggete il nostro articolo sul “fenomeno” qui), busti e teste di gesso (il marmo costa troppo) a far da modelli per i banner degli eventi e le copertine digitali. Ecco invece una scelta brillante e di gran gusto: la musica Vaporwave ha come main-core la ri-mediazione e trasformazione dei classici musicali, rallentandoli, modificandoli, attualizzandoli. Dunque è assolutamente coerente la scelta d’immagine e stile, l’utilizzo del classico in un contesto contemporaneo, si passa dai pesanti marmi di Carrara alla leggerezza dei bit di un banner.
Simile la scelta delle organizzazioni italiane progressive anni 90 che ponevano imperatori romani a presidiare le entrate del disco-tempio. Qui è la location a esser stata ri-mediata, il tempio prima luogo di culto spirituale, oggi luogo di celebrazione del rito della danza.
Resta da capire quante persone coglieranno i collegamenti e quanti invece crederanno di vivere in una gipsoteca digitale, nuova e originale.
C’è chi pensa per noi e cerca di individuare le “tendenze” che piaceranno ai più, anticipando e rompendo il passato con vecchi stili, ora ritenuti nuovi, che si insedieranno nel nostro immaginario collettivo. Già Frank Zappa lo notò in riferimento alla produzione musicale e lo indicò come la fine della libertà artistico-creativa, a favore di un prodotto di massa, “qualcuno” sa cosa vogliono i giovani e glielo offre su un monitor d’argento. Fino a quando la ricerca sarà finalizzata all’economia, alla diffusione di massa e alla mercificazione dell’arte, il loop non si fermerà mai. La ricerca artistica dovrebbe essere libera e fine a se stessa, senza obiettivi preposti.
Diciamo questo proprio oggi, stiamo ascoltando una nuova label di musica “contaminata” (che Gianluca Petrella ci fulmini) tra jazz, africa ed elettronica… e ci piace.
Alessandro Gambo