In diverse parti d’Europa la musica elettronica si sta dimostrando uno strumento di protesta, di lotta politica, in alcuni casi persino di rivoluzione. È evidente che nel nostro Paese non sia cosi, ma potranno mai cambiare le cose?
Solo nell’ultimo mese sono almeno tre i casi in cui la musica elettronica si è affermata come uno strumento di forte protesta e di critica ad una certa mentalità. Che è ciò che deve essere. La musica Techno, per esempio, nacque a Detroit in un momento di profonda crisi e depressione per la “città dei motori”. Lo stesso dicasi per il valore che questo genere ha assunto al suo arrivo in Europa, in un periodo a cavallo della caduta del Muro di Berlino.
La musica House, specialmente nella sua declinazione Acid, è stata la colonna sonora della seconda Summer of Love, periodo di grande rilievo e cambiamento per i giovani inglesi. Per non parlare dell’importanza che ha assunto la scena rave dagli anni ’80 in poi.
Insomma, è chiaro a tutti che la musica elettronica è nata essenzialmente per soddisfare i vari bisogni che i giovani di tutto il mondo sentivano in un determinato momento e contesto storico.
Alcuni recenti fatti del mese di maggio hanno, un po’ a sorpresa, confermato questi valori. A Londra il dj e produttore britannico Gideön presenterà, in collaborazione con la locale Soho Radio, il Revolution Day.
L’evento di docici ore, che vedrà artisti del calibro di Jackmaster, Prosumer, Eats Everything, Midland, Seth Troxler, Heidi, Artwork e moltissimi altri, è stato organizzato per il prossimo 13 luglio, in risposta alla visita di Donald Trump nella capitale inglese. Si protesterà anche contro la Brexit e contro i Tories in genere, ovvero i sostenitori del partito conservatore.
La questione di Tbilisi, del Bassiani e del Cafè Gallery, è sicuramente balzata in modo più forte agli onori delle cronache. Abbiamo riassunto l’intera vicenda, che vede uno degli esempi di rave di protesta migliori della storia della musica, in questo articolo riassuntivo.
Infine, è di poche ore fa la notizia della protesta organizzata per il prossimo 27 maggio da Reclaim Club Culture, un collettivo di sinistra che vede coinvolti club e organizzatori quali Tresor, Prince Charles, Ohm e ://about blank. Il tutto in risposta alla marcia dell’AfD, partito di estrema destra che ha da poco cercato di togliere la licenza al celebre Berghain di Berlino (maggiori informazioni in questo nostro articolo).
Questi tre esempi dimostrano che non è più necessaria quella situazione di disagio e ribellione che ha contraddistinto, come detto poco fa, la nascita di certi generi e movimenti. La comunità costituita da club, organizzatori, artisti, appassionati e clubber si sta muovendo sempre più spesso per contrastare ciò che si oppone a ciò che questa comunità rappresenta, libertà su tutto.
Tutto ciò significa che sono numerosi i contesti in cui la musica elettronica è vissuta come un fenomeno sociale e politico, uno strumento potente che non serve solamente a far ballare le persone, un’ideologia ben radicata.
E in Italia?
A quanto pare, nel nostro Paese si sentono accostare le parole “musica” e “protesta” solo in quelle occasioni in cui cittadini e amministrazioni lottano per fermare dei party, chiudere locali o impedire festival e manifestazioni musicali. Paradossalmente, sembra esserci più convinzione in coloro che combattono per impedire che la gente si diverta, piuttosto che in chi vorrebbe divertirsi.
Senza rimanere sull’astratto, ripensiamo al caso Cocoricò del 2015: il locale riminese venne chiuso per ben quattro mesi in seguito alla morte per droga del sedicenne Lamberto Lucaccioni al suo interno, nonostante si fosse poi scoperto che le sostanze erano state acquistate nella sua città natale, Città di Castello, dal giovanissimo umbro.
Modalità a parte, il caso è molto simile a quello del Bassiani. Perché, allora, la movimentazione nel caso italiano è stata pressoché nulla? Il club ha accettato, apparentemente senza troppa opposizione, la decisione, mentre scattava l’indignazione social da parte di appassionati, addetti e via dicendo. Indignazione che, com’era prevedibile, non ha portato a nessun risultato concreto.
Nessuno si aspettava il riversarsi di 10.000 persone in piazza com’è successo a Tbilisi, ma non sarebbe stato un segnale forte e difficile da ignorare l’organizzare eventi spontanei che chiedessero la revisione di quella decisione?
Il problema, però, è ancora più profondo. Se anche fosse stato organizzato qualcosa, siamo sicuri che ci sarebbe stata partecipazione? In altre parole, siamo sicuri che un numero considerevole di persone avrebbe partecipato ad un evento atipico, senza grandi nomi in console, senza tavoli e decorazioni, senza una promozione alle spalle, con lo scopo ben preciso di sostenere un’idea, una causa e un tipo di mentalità?
Noi siamo quasi sicuri del contrario, perché non si può sostenere una certa mentalità, quando questa mentalità semplicemente non esiste. E in Italia questa mentalità è latitante, se non assente. Chi vi scrive è un modesto conoscitore della vita notturna nazionale, ma ha le basi per capire che in Italia sono pochissime le persone che vanno ad un evento di musica elettronica spinte da un sentimento vero e, soprattutto, da una voglia di sentirsi parte di un movimento.
Se dovessimo immaginare uno scenario apocalittico, che vede la chiusura di ogni locale notturno sul territorio nazionale, fatichiamo immensamente a ipotizzare una rivoluzione dei giovani italiani, che scendono in piazza in nome della musica e della libertà di ballare e sentirsi liberi.
In tutta sincerità, ci riesce molto più facile immaginare una situazione in cui la protesta social-verbale sarebbe tanta e infuocata, ma effimera. E allo spegnersi di questa protesta, i pochi ragazzi (questo è solo uno degli articoli che dimostra come sempre più giovani decidano di non uscire la sera) che hanno ancora un interesse a vivere un certo tipo di divertimento si adeguerebbero senza troppi problemi ad alternative spente e di scarsa dinamicità.
Non prendiamoci in giro; il clubbing in Italia è più moda e tendenza che altro. Sono finiti anche i tempi in cui significava almeno ribellione. I centri sociali, ultimi baluardi in cui le serate di musica elettronica avessero ancora una particolare valenza, si stanno svuotando e le persone frequentano locali che oggi accolgono un evento di musica elettronica e domani ospitano una serata che incarna valori diametralmente opposti.
C’è chi è convinto che la musica sia musica, e poco importa se le persone ballano Techno in uno scantinato durante una guerra civile o le hit del momento al tavolo di una discoteca tirata a lucido. C’è chi è convinto che i soldi siano l’unica cosa che conta, e di conseguenza che sia giusto e giustificabile adeguarsi alle mode del momento, agendo in modo negativo sui gusti delle persone.
Noi, forse in maniera utopistica, speriamo in un cambio di rotta e in una rinascita del lato romantico e passionale della vita notturna. Altrimenti, ci togliessero tutto, noi nemmeno ce ne accorgeremmo.