Negli scorsi mesi abbiamo avuto il piacere di chiacchierare con una delle figure più importanti della storia del clubbing italiano, Francesco Farfa. Insieme, abbiamo effettuato un’analisi lucida e completa dello stato di salute del clubbing nazionale, ripercorrendo la sua esperienza e la sua carriera dagli inizi a oggi.
Francesco Farfa è un artista che non ha assolutamente bisogno di presentazioni: cercare di riassumere in poche righe una delle carriere più brillanti e longeve della scena elettronica nazionale ed europea non gli renderebbe di certo giustizia. Dai primi anni ’90 ad oggi, Francesco Farfa è stato infatti un punto di riferimento per ogni persona si avvicinasse al mondo del djing. La sua grande sperimentazione come dj e come producer, la sua tecnica e la vasta ricerca sonora che ne caratterizzano trent’anni di carriera, hanno dato alla musica elettronica dalla fine degli anni ’90 in poi un’eredità importantissima.
Figure come Francesco Farfa hanno avuto infatti un ruolo determinante per quella che è l’attuale club culture: senza il suo contributo, forse, il clubbing non sarebbe quello che conosciamo. Inoltre, vi ricordiamo che Francesco è stato uno dei primi dj italiani ad essere chiamati ad esibirsi all’estero quando l’Italia era il modello da seguire.
Ancora oggi, i clubber di mezza Europa, da Parigi a Barcellona, conoscono e apprezzano uno dei tesori della nostra scena musicale, un artista di cui dobbiamo andare orgogliosi e che rappresenta l’eccellenza italiana in Italia e nel mondo.
Abbiamo realizzato per voi in collaborazione con Francesco questa grandissima intervista, dove ci viene offerta una visione globale del clubbing e della sua evoluzione. Per deliziare il vostro udito, Francesco Farfa ci ha inoltre regalato un podcast, realizzato in esclusiva per Parkett.
Non ci resta che augurarvi un buon ascolto e una buona lettura.
A tutto Farfa
Come è nata la tua passione la musica elettronica?
La mia passione per la musica elettronica è nata già in tenerissima età. Negli anni ‘70, artisti come Kraftwerk, Rokets, Space, Olfield, JMJarre e Moroder, (per citarne alcuni) hanno dato un’impronta rivoluzionaria alla musica, iniziando a sdoganare certe sonorità verso un pubblico più ampio. Ovviamente, anche io sono rimasto affascinato da quelle frequenze all’avanguardia che amplificavano la fantasia verso dimensioni surreali. Inoltre, c’erano anche i primi colossal di fantascienza, molto innovativi per il tempo, che contribuivano a fomentare una visione futuristica della vita. Oggi, con cinema, rendering e ologrammi, il “futuro” è diventato il presente ma immaginiamoci all’epoca, un ragazzino di 10 anni alle prese con certi tipi di effetti e un sound che arrivava così fresco all’orecchio dell’ascoltatore… Quel periodo, con le sue magiche influenze, è rimasto impresso nel mio spirito, formando una matrice che condiziona tutt’oggi il mio modo di lavorare con la musica e con il pubblico.
La passione per il djing invece? Quando l’hai scoperta?
La passione per il DJing è iniziata un annetto dopo le mie prime esperienze in discoteca: c’erano molte strutture nella mia zona che funzionavano tantissimo e facevano muovere centinaia e centinaia di giovani e giovanissimi. Ho iniziato a frequentare la scatola magica appena a 13 anni, le domeniche pomeriggio. Quello che avveniva nella pista da ballo, quella sincronia tra musica e luci, mi catapultava mentalmente dentro la stessa dimensione futuristica in cui, anni prima, mi catapultavano musica e cinema, alimentando così la mia immaginazione. All’eta di 14 anni conobbi un ragazzo che mi aprì casa sua mostrandomi la sua consolle con giradischi e mixer; in quel momento iniziai a scoprire come pilotare una navicella spaziale!
Come si è creato e come hai vissuto lo sviluppo del primo movimento house, techno ed elettronico in Italia?
Nella seconda metà degli anni ’80 ho iniziato a lavorare in uno dei locali più all’avanguardia della Toscana (che poi si è scoperto lo fosse anche a livello nazionale), che era la Barcaccina di Mario Provinciali. Iniziai come sostituto di Paolo Camilli insieme a Carlo Magni. Sia Paolo che Carlo avevano un ottimo gusto musicale e questo mi ha portato a scoprire con loro la nascita della prima house music, un genere che iniziammo a inserire all’interno di un palinsesto musicale che vedeva la grande presenza di brani pop e dance provenienti da Stati Uniti e UK. A mio avviso, tra l’86 e il ’90, la rivoluzione è stata talmente forte che ci siamo ritrovati in una dimensione impensabile fino a pochi anni prima. La musica strumentale stava iniziando a prevalere su quella vocale e dato che le strutture dei brani aprivano nuove prospettive verso tecniche come quella di sovrapposizione, ho iniziato a esplorare nuovamente quello spirito futuristico che avevo immagazzinato da piccolo come fruitore, felice di poter plasmare con i miei mix tracce di genere intrinseco, sperimentando e creando atmosfere sempre più sognanti e oniriche. Negli anni successivi il movimento ha cominciato a spargersi a macchia d’olio, connettendo le persone in maniera molto spontanea, solamente con una comunicazione fatta di passaparola e flyer. I promoter e addetti ai lavori viaggiavano da una situazione all’altra per conoscere i DJ’s e collaborare reciprocamente: era una sorta di viaggio alla scoperta di “chi, come e cosa”. Inoltre, in Italia c’era il SIB, manifestazione che raggruppava migliaia e migliaia di addetti e clubbers pronti a sfoggiare il meglio di sé. Ci trovavamo per conferenze, workshop , interviste, premiazioni e molteplici party dove ci volevi e dovevi essere… Praticamente tutto quello che avviene oggi all’ADE, ma 30 anni fa. Grazie a tutti questi eventi, ho vissuto un bellissimo sogno che si è trasformato in realtà, cercando di cavalcare i tempi e i suoni con impegno e dedizione. Lavorare con forti personalità sia in Italia che all’estero mi ha permesso di apprezzare e approfondire novità e sensazioni scaturite da questa musica e dalla forte crescita di un movimento che si stava costruendo anche per merito nostro. Tutto questo è stato fondamentale: aver creato un team con Miki The Dolphin e Roby J, con i quali ne abbiamo combinate davvero delle belle, non ha prezzo e questo vale anche il periodo in studio passato con l’amico Joy Kiticonti. Aver avuto l’opportunità di uscire dalla nostra penisola già dai primissimi ’90 mi ha fatto vedere le cose con un’ottica diversa da come l’avevo vissuta fino ad allora e, sicuramente, tutti gli stimoli ricevuti sono stati preziosissimi durante le nostre esibizioni sul territorio nazionale, un territorio al quale ho sempre tenuto moltissimo.
Quindi siete stati in qualche modo consapevoli di quello che stavate facendo e di quello che sarebbe stato il futuro della musica elettronica?
Ovviamente all’inizio no. Abbiamo sempre lavorato a testa bassa sentendo la musica nel profondo, esprimendola con un certo spirito, molto mentale per quanto mi riguarda. Dall’inizio fino alla fine degli anni ’80 non era possibile immaginare ciò che sarebbe potuto accadere. 1990 e 1991 sono stati anni di timida avanscoperta verso qualcosa di possibile. Dal ’92 con la nascita dell’Insomnia e la forte richiesta internazionale il quadro ha cominciato a prendere una forma solida e concreta.
Guardando al presente invece: qual è lo stato di salute del clubbing italiano? E a livello internazionale invece?
Anche secondo il parere di molti addetti, pare che il clubbing italiano sia arrivato ad un bivio. Nelle nostre metropoli la situazione regge ancora; è la provincia invece che fa molta più fatica. Per esempio, la questione trasporti e viabilità mette davvero in difficoltà l’utente, per ovvi motivi, che si vede costretto a utilizzare l’auto per poter partecipare ai party e ascoltare i suoi artisti preferiti. Da sempre mancano delle politiche di supporto verso l’intrattenimento notturno che, volente o nolente, sono necessarie. Da noi si chiudono ancora i locali per problemi di droga, quando è evidente che il commercio di sostanze avviene soprattutto al di fuori dei club. Nel nostro paese le istituzioni permettono ai club di lavorare “borderline”, proprio per avere in pugno le sorti e rompere il loro ciclo di attività a comando. Basta infatti un piccolo problema di ordine pubblico o un “fastidio” imminente per stoppare un locale con un banale appiglio, senza tener minimamente conto delle persone che ci lavorano o della perdita economica da parte dei promoter e gestori. A me, ad esempio, hanno tolto un permesso a 12 ore dall’inizio di un grosso evento che stavo organizzando, nel paese dove sono cresciuto, dopo aver investito denari ed energie per 3 mesi per mancanza della macchina di rilevamento del fumo (quel locale quindi non era a norma di legge pur esercitando da più di 30 anni poiché non l’aveva mai installata).
Quest’episodio ci porta a presumere che sia meglio togliere un permesso al fotofinish invece di mobilitare 3 caserme del circondario per un servizio notturno dedicato allo spostamento di una massa di persone più consistente del solito. Forse avvisarmi prima suggerendomi di non organizzarlo, sarebbe comunque stato meglio che tentare di gambizzarmi. Ma cosi funziona la democrazia, travestita da Ponzio Pilato.
Insomma, anche tu sei stato vittima delle contraddizioni del sistema Italia…
Ti dico che per quell’occasione avevo organizzato un servizio di sicurezza ineccepibile con tanto di matricola abilitativa. È vero che ci sono stati anche casi evidenti di negligenza totale da parte di alcuni gestori (giustamente puniti), che pur di fare soldi hanno messo in pericolo la vita di centinaia di giovani e forse, anche questo, è parte del problema, ma non giustificherò mai l’allora scadente sindaco e chi stava dietro a quella scelta, nascosto dietro ad un dito. Ci sono club che lavorano da oltre tre decadi garantendo un servizio professionale, verso i quali ci vuole un po’ più di rispetto. Esistono gestori giovani che pur essendo nel campo da pochi anni ci mettono anima e corpo per fare le cose bene e in regola. È piuttosto triste pensare che, grazie a queste politiche che infondono sfiducia e insicurezza, si investe sempre meno in un settore che potrebbe contribuire a rilanciare anche economicamente il turismo e molte realtà locali. Prendiamo come esempio Ibiza: nell’epoca di rilancio dei primi anni ’90, la politica del turismo è stata incentrata quasi completamente sul clubbing. Oggi, nel nostro paese, chi spenderebbe una considerevole somma di denaro per costruire un club più innovativo, implementando la tecnologia, se poi c’è il rischio concreto che da un momento all’altro possa avvenire un’interruzione dell’esercizio? Al di fuori della nostra penisola questi problemi non esistono, salvo rarissimi casi di negligenza colossale. Quanti dei più famosi club internazionali infatti, rispettano al 100% le normative europee? Eppure continuano a esercitare in assenza di pressioni, adeguandosi alle normative con il tempo e in collaborazione con le istituzioni. Ci sono addirittura strutture molto semplici, messe in piedi con 2 soldi che sono diventate un must del circuito internazionale proprio perché hanno potuto esprimersi in libertà, senza troppi vincoli e senza intoppi.
Visto il riferimento al modello Ibiza: non credi che negli ultimi anni anche l’isola abbia dovuto fare i conti con un cambio di politica che è avvenuto dentro e fuori il mondo del clubbing?
Ibiza non fa testo: la politica per decenni ha favorito l’esercizio piuttosto che castrarlo, nonostante gravi casi di vario genere. Nell’Isola i club possono permettersi certi lussi perché si mettono in società gli artisti stessi o i promoter che ne fanno capo, con relativi costi e ricavi. Se qualcosa sta cambiando nell’isola forse dipende anche dalla scelta di cambiare tipologia di pubblico a cui il clubbing si rivolge: è evidente che l’offerta stia virando verso un pubblico con un differente potere d’acquisto rispetto anche al nostro paese. Nella maggior parte dei club, a parte pochi esempi a livello mondiale, il costo dell’ingresso non arriva neanche ad una quinta parte di ciò che si può pagare in un club dell’isola, a meno che non ci siano sponsorizzazioni speciali.
Quindi possiamo affermare che questo modo di intendere il clubbing non sia un modello sostenibile per il nostro paese…
Non più, e le conseguenze sono evidenti: nel nostro paese negli ultimi 10/15 anni, per stare al passo con la proposta mainstream internazionale, tanti promoter hanno iniziato a contendersi gli artisti più in voga con dei grandi colpi d’asta, per ottenerne l’esclusiva temporale e territoriale, arrivando a pagare dei cachet stellari che, escludendo Ibiza, non si sono pagati in nessun altro paese europeo. Le agenzie, di conseguenza, si sono trovate costrette a puntare sul miglior offerente e questo ha causato un collasso sui prezzi che non hanno più permesso un break even realistico. In questo modo si è creato e perpetuato un sistema insostenibile includendo l’obbligo di rimuovere la figura del resident perché la super guest internazionale e la sua agenzia impongono il proprio warm-up DJ. Qui si è toccato il fondo e da qui si deve risalire perché con la rimozione del dj resident si è persa l’identità di un club. Infine, parte questo fenomeno è stato causato dalla scelta di proporre, anno dopo anno, delle line-up fotocopia da parte di club e locali considerati istituzioni, che si sono trovati dall’essere realtà propositive d’avanguardia a “spazi dati in concessione”, finiti poi per non riempire sempre. Non rendersi conto che le cose stiano cambiando e pensare che, al giorno d’oggi, con i social network e la facilità di comunicazione basti solo il nome, o un riferimento al modello ibizenco (o a qualche festival blasonato), per riempire un club è l’errore più grande di tutti e i risultati, purtroppo, si sono visti.
A questo proposito, credo che negli ultimi dieci anni siamo stati testimoni di un sistema che ha visto come assolute protagoniste le agenzie di booking, promuovendo solamente pochi “artisti” su larga scala. Oggi si inizia invece a vedere il ritorno sulla scena di nomi che hanno fatto la storia del movimento? Come vivi quest’inizio di inversione di tendenza?
Probabilmente questa è la conseguenza dell’eterno ritorno delle cose. Il corso degli eventi è ciclico. Il passato ha sempre affascinato le nuove generazioni ed è soprattutto grazie a questo fenomeno, grazie alla ricerca e all’arricchimento del bagaglio personale e professionale, che si torna a far luce su chi è stato partecipe e fautore di un certo movimento e pensiero. Situazioni di nicchia stanno mostrando un particolare interesse verso alcune personalità che erano state messe un po’ in disparte, surclassate dal mainstream, dal potere dei social media, dai suoi influencer. DJs come Miki, dopo alcune reissue come quella di Life of Marvin, sono ritornati nell’interesse di alcuni circuiti che marcano volutamente una linea di ricerca verso le origini di un filone. Fino a 2/3 anni fa era impensabile che una label come Interactive Test ritornasse sul mercato con cosi tanto interesse e rispetto. Io stesso vengo chiamato da nuovi promoter che hanno fame di radici e questo è bellissimo poiché tale prospettiva apre nuove possibilità di espressione, mischiando Il vecchio con il nuovo, tramandando un metodo di lavoro creativamente e psicologicamente interessante, nonché un’esperienza solida da valorizzare nuovamente e ri-contaminare, a sua volta, con le nuove energie dei giovani. Il caro Roby Jay sarebbe uno degli esempi di rinascita più eclatanti sotto questo aspetto. Se molta spinta, in questo senso, la stanno dando alcuni coraggiosi promoter veterani, che hanno la giusta esperienza e sensibilità per promuovere questa onda di richiamo, è significativo che anche grazie alla curiosità di giovani e “nuovi senior” (se cosi si può dire) tra promoter e Djs/produttori, si stia alimentando questo fenomeno, che genera rispetto e gratitudine fra le parti. Un grande lavoro lo sta facendo il Tenax di Firenze. L’impostazione di questo storico club ha iniziato una trasformazione da settembre 2018 e la situazione sta prendendo una forma tendenzialmente controcorrente. Già da un paio d’anni Alex Neri, soci e collaboratori, hanno elaborato delle riflessioni (in alcune ho avuto il piacere di far parte) che vedono un futuro grazie a una grande dose di coraggio. È il primo Club Italiano di fama Internazionale e di notevoli dimensioni che ha deciso di virare la rotta, puntando su una squadra di dj resident, di cui faccio parte, ricca di talento come Philipp & Cole,Mennie, Matteo Zarcone, Luca Donzelli e Marco Faraone, un esempio di dj di fama internazionale che ha deciso di battersi per ritornare a un clubbing più autentico e sano e, ovviamente, lo stesso Alex. Questo esempio, insieme ad altre realtà che sono in sintonia sta già contribuendo a fomentare un nuovo ciclo positivo, inanellando sempre più consensi anche da parte di professionisti dell’informazione di settore, cosa che ha il suo rilevante valore.
Ma allora, quale potrebbe essere il futuro del clubbing Made in Italy? Quali le migliori scelte per uscire da un periodo così difficile?
Un’iniziativa sicuramente da considerare è quella di creare un circuito alternativo da quello convenzionale, con nomi d’esperienza e nuovi talenti, per dare una certa continuità e rimettere in moto un movimento genuino, etico, trasparente, che metta in primo piano la passione per la musica e del “fare bene”. Questo potrebbe richiedere la creazione di una sorta di “consorzio” formato da un associazione di addetti ai lavori che preveda un riconoscimento delle capacita professionali degli operatori, specialmente nel campo DJ. Sono consapevole che questo può suonare un tantino rigido e poco flessibile ma siamo arrivati a un livello tale che non è più ammissibile che chiunque possa esibirsi senza avere i requisiti necessari per gestire una serata, e non solo a livello musicale. Per esempio, una programmazione variegata ma con rotazione andrebbe a ricostruire quella fidelizzazione a un club specifico (e non solo al clubbing come fenomeno) che è svanita nel tempo. Come dicevo prima, va ripristinata e valorizzata al massimo la figura del dj resident; se poi qualche superstar decidesse di avvallare una visione più collaborativa e meno speculativa, ben venga!
Sembra però che al giorno d’oggi ci sia una netta preferenza per i festival con programmazioni condensate piuttosto che frequentare un locale con un numero nettamente inferiore di artisti che però si possono esprimere per più tempo…
Festival e club sono Yin e Yang. Molti promoter hanno voluto cambiare i locali, configurandoli, tecnicamente come i grandi eventi internazionali o come palcoscenici da concerto. A mio avviso, anche questo fattore ha contribuito fortemente alla decadenza della magia di certi ambienti. Un club vero ha quattro punti di ascolto (minimo), una configurazione surround per intenderci. Chi capisce questo e lavora per ripristinare un’impostazione della propagazione sonora corretta è sulla strada giusta. Non se ne può davvero più di vedere piccoli club che montano gli impianti frontalmente, con i bassi caricati a tromba per giunta! Il basso da club è reflex, morbido, pneumatico, non reboante. Curare l’acustica di uno spazio dovrebbe essere un’operazione di default (anche con materiali che penalizzino l’estetica a favore della qualità). Nel club bisogna essere avvolti dal suono senza essere ammazzati dall’eccessivo reverbero e senza venire mitragliati frontalmente. L’apparato luci poi è importantissimo: la discoteca deve tornare a valorizzare la figura del LightJockey , che negli anni 70/80 era cruciale. Negli ultimi 10/15 anni l’automatizzazione è diventata uno standard e, salvo poche eccezioni, la cosa non ha sicuramente migliorato la qualità… Un elemento che sicuramente gioca a favore dei festival sono le bellissime ambientazioni outdoor, con la possibilità di ballare all’aria aperta. Vivere le emozioni provenienti dalla musica a contatto con la natura o con architetture gentili e ricercate per diverse persone ha molto più fascino. Il club invece come punto di forza ha proprio la sua struttura chiusa e in qualche modo intima, che in qualche modo protegge il suo pubblico e lo coccola. Un festival invece, per quanto mi riguarda se si svolge indoor perde il suo significato. Per quanto riguarda la proposta è innegabile che i cartelloni grandi attirino i giovani. Credo però che ugualmente esistano persone affezionate al proprio club, che si gustano meglio dj set più lunghi, ricercati e strutturati e questo è quello su cui dobbiamo lavorare e ritornare. La chiave di lettura corretta a mio parere sarebbe quella di tornare a curare di più il club in tutti i suoi aspetti partendo dalla musica fino alla sua estetica, dando la priorità al confort neuro-acustico, creando un luogo accogliente dove le persone si sentano a casa e abbiano la sicurezza di potersi divertire e stare bene insieme: con un certo spirito di aggregazione e adoperando una visione più aperta e collaborativa si può ripartire. C’è un costume che importerei dalla Germania, cioè quello di limitare l’uso degli apparati multimediali, meglio ancora creando uno spazio guardaroba per smartphone da utilizzare solo in caso di personale necessità. Un “rito danzante” deve riprendere il suo ruolo originale e permettere alle persone di ritrovare la propria spiritualità con la sua relativa discrezione, in un contesto di intimità e al tempo stesso di libertà.
A livello socio-culturale invece cosa aiuterebbe?
Da un punto di vista socio-culturale sarebbe ottimo organizzare un paio di grossi eventi l’anno, magari per un intero fine settimana, dove producer e dj dai background più ampi possano esibirsi e tenere delle conferenze in collaborazione con medici, antropologi, sociologi, psicologi, filosofi, politici e istituzionali. Non una cosa incentrata solamente su tecnologia, musica e intrattenimento, ma aperta e a tutto campo, che abbia il fine di migliorare e migliorarsi costantemente, anno dopo anno. Al pubblico piace molto il rapporto diretto e, oggi più che mai, questo tipo di iniziativa avrebbe un senso particolare. Non è niente di nuovo lo ammetto, ma non dimentichiamo che siamo stati i primi a farlo, in un certo qual modo, ed è qualcosa che vale la pena riscoprire e rilanciare, implementandolo. I social network aiutano molto con la pubblicità ma il contatto umano è quello che misura davvero le vibrazioni delle persone, rimanendo il mezzo più apprezzato.
Parliamo di musica: qual è il suo ruolo in un party?
Posso dirti quale sia per me il suo ruolo, ma devo però distaccarmi dal significato etimologico del termine “party”. Considero ogni serata una cosa a sé, singolare e senza uno standard ben definito. Siamo esseri umani e come tali ci esprimiamo a seconda di una visione personale, che può essere temporanea e versatile o decisamente radicata. Contano i fattori esterni, come il luogo, l’atmosfera, il meteo e l’energia che ogni partecipante accumula ed emana: conta tutto l’insieme! La musica non deve essere necessariamente frivola, allegra, pimpante che faccia saltare o sorridere e basta. Sicuramente ci devono essere dei momenti in cui questo accade ma credo che in un’esperienza di ballo, specie quando parliamo di musica elettronica, si debbano vivere vari tipi di emozioni… Scorci di vita riassunti come in un film, fatti di salite e discese, come le varie forme delle onde sonore. Con la musica, si può disegnare, per esempio, un lungo momento di crescita o decrescita che può sfociare in un apoteosi di beatitudine come in uno stato di inquietudine (onda sinusoidale), oppure creare uno shock, un sorprendente break-out per stravolgere completamente il mood (onda a dente di sega). È interessante vedere cambiare improvvisamente la pista, specie quando si plasma una condizione sonora fatta di particolare coinvolgimento e concentrazione da parte del pubblico. È davvero bello poter creare dei momenti in cui si può sognare con la mente, fantasticare, provando anche delle sensazioni di distacco dal mondo reale. Si possono vivere grandi momenti di introspezione, riflessione, creatività, così come ci si può sfogare, buttare fuori lo stress, navigare con il proprio turbamento per poi lasciarlo andare e abbandonarsi come in una sorta di esperienza terapeutica. La musica ha il potere di penetrare la terza dimensione: con mente e spirito si possono vivere emozioni molto profonde, come in un rito sciamanico. Inoltre, ha anche il potere di portarci nei meandri più bui della nostra psiche e bisogna fare molta attenzione a come la si utilizza, per questo ci vuole una grande dose di responsabilità da parte di chi opera. Qualsiasi DJ colleziona, a seconda della propria visione e metodo, esperienze memorabili. Personalmente, ne conservo di particolarmente speciali, che hanno segnato in modo irreversibile la mia personalità e il mio animo, specialmente in una particolare occasione dove ho visto persino la meteorologia interagire con la musica, come gli elementi di un’orchestra.
Come ti approcci a un dj set? C’è molta differenza rispetto a 10 o a 20 anni fa?
Un albero, pur mantenendo le sue radici nel terreno, cambia nella sua forma. Ciò significa che nonostante l’essenza (o matrice) resti ben solida, si crea una differenza di approccio alla musica perché, con il passare degli anni, si matura una diversa sensibilità nell’ascolto. Anni fa amavo improvvisare. Ascoltavo, immagazzinavo, mi buttavo facendo errori, provando un particolare gusto nel ripararli. Sperimentavo psicologicamente, oltre che musicalmente..Vedi, a volte la sperimentazione non è solamente collegata a un tipo di musica sperimentale, ma significa anche provare a vedere cosa succede utilizzando un brano musicale più “facile” e inserirlo in uno scenario che non gli appartiene. Adesso mi approccio con un briciolo di preparazione in più. Cerco di captare le sensazioni che mi trasmette il promoter e l’intento che emana. Valuto il reale interesse che c’è da parte sua nel propormi e durante il periodo di promozione sfrutto i social dialogando con i partecipanti per tastare la loro energia. Poi, un po’ prima della serata, creo una linea suggerita dall’umore di quel momento, come se fosse la linea degli ingredienti del cuoco in cucina. A volte, disegno una variante, un “piano B”. Non manco, in alcune occasioni, di ritornare alla sorgente inventiva, improvvisando talvolta anche al 90 o al 100% . L’esperienza ti serve anche per riadottare quell’impulso primordiale che ritorna. Quando una serata si presenta particolarmente aperta e magica, si crea uno scambio elevato alla potenza, in quanto non sei solo tu Dj a controllare il pubblico, ma sono le persone che in alcuni momenti riescono a trasportarti in una dimensione straordinaria, ispirando la più sublime creatività. Non è facile spiegare questo fenomeno, posso dire solo che è, semplicemente, fantastico.
Credi che anche a livello discografico ci siano delle imposizioni provenienti esclusivamente dalle leggi del marketing? Come si distinguono i lavori autentici?
Il mondo della musica è sempre stato invaso da capolavori, mediocrità e scempi. Prima in numero ridotto poi, con l’avvento del digitale, in scala esponenziale. Oggigiorno, scegliere la musica è diventato un “lavorone”. A meno che non si seguano canali prescelti, se ci buttiamo nel calderone del mercato digitale globale c’è da scremare 10000 volte tanto. Bisogna saper valutare in base al proprio gusto e misura, esperienza e mestiere, senza dare nulla per scontato anche se può capitare di sbagliarsi. Il metodo pratico per constatare l’autenticità e il valore di un brano è sempre stato quello di sperimentare con il pubblico, anche se un bravo Dj deve già averne intuite le potenzialità. La speculazione è presente nella musica su tutti i livelli da sempre. Le case discografiche scendono continuamente a compromessi con le radio ed altri mezzi di diffusione. C’è poi il fenomeno dell’auto-buy. Quando un brano è spinto in classifica si crea attenzione, dall’attenzione si passa alla persuasione e di conseguenza al compiacimento. È risaputo che dopo un bombardamento a tappeto, alla fine qualsiasi brano ti entra in testa e finisce col piacerti (anche se, fortunatamente, non a tutti accade). A tal proposito, posso fare un appunto personale su quando mi capita di veder giudicare un “pezzo bomba” , quella produzione che non smuove niente in me. Non parlo di brani che appartengono a mondi diametralmente opposti, ma produzioni suonate da colleghi verso i quali nutro un grande rispetto. Mi riferisco ad alcuni tormentoni che hanno fatto bello e cattivo tempo in una stagione Ibizenca, ad esempio. In certi casi rimango addirittura sbalordito di una certa volubilità e auto-persuasione. Per mettermi in gioco ho provato a riascoltare nel tempo alcuni pezzi per vedere se il mio parametro di allora fosse inadeguato, ma nella maggior parte dei casi ho avuto conferma di quello che sentivo e pensavo durante i primi ascolti. Quelle volte in cui parlo di musica con i giovani, cerco sempre di precisare un punto e fare una raccomandazione: ascoltare con le proprie orecchie, liberi da qualsiasi tipo di influenza. Un conto è seguire un suggerimento, un altro è diventare vittima di un bombardamento mediatico. Non c’è un modo preciso per capire l’autenticità e il valore di un brano in effetti, ma è molto importante coltivare la propria sensibilità e il proprio gusto con il fine di captare quel “quid”, talvolta misterioso, che ne riconosce il titolo.
Perché la nostra società continua a vedere il clubbing come un qualcosa da combattere e non come una risorsa? Il nostro è forse il paese europeo che attira meno turismo di settore. Come possiamo migliorare questi aspetti?
Siamo un paese solo apparentemente libero, dove i pregiudizi superano le certezze, dove l’ipocrisia è ben vestita e la corruzione non è tangibile solo nell’economia, ma anche nella mentalità delle persone. Quando i media italiani parlano di club, discoteche e vita notturna, in genere lo fanno quasi esclusivamente in caso di morti per droga, incidenti stradali o problemi di ordine pubblico. Mentre le discoteche chiudono ci sono basi di spaccio a cielo aperto che operano in totale libertà in tutto il territorio nazionale. Esempio evidente di come funziona il bel paese. Per fortuna qualche documentario, come ad esempio quelli di Alberto D’Onofrio, hanno dato una visibilità positiva al nostro settore. Un plauso a Sky per averli trasmessi. Siamo stati pionieri di alta qualità in questo campo, cosa che meritava più attenzioni da parte dell’informazione in senso lato. Come per tutte le cose, in un futuro ci si accorgerà che il clubbing italiano non è stato solo marciume o dannazione e tante cose verranno viste con occhi diversi. C’è solo da aspettare che maturino i tempi. Ma è giusto attendere le glorie di un passato pionieristico, o ha più senso muoversi per riprendere il controllo del presente? Il nostro è un paese che sta basando quasi tutta l’economia sul turismo, dato che in altri campi con le delocalizzazioni e le cessioni di importanti società a compagnie estere ci rimane sempre meno. Se questa è la tendenza, tutto lo showbusiness (intrattenimento notturno incluso) va sostenuto. La burocrazia dovrebbe semplificare al massimo le pratiche di gestione ed esercizio e bisogna che la politica economica apra verso una tassazione più bassa proprio perché la musica e il ballo sono cultura, in egual modo che la lettura e le arti visive. C’è tanto bisogno di lavorare in tranquillità, con onestà ed etica professionale e sono davvero molte le persone disposte a farlo. Mi auguro che l’eredità che rimane delle vecchie generazioni insieme alla voglia e all’impegno delle generazioni presenti possano costruire un futuro che abbia una tonalità diversa, fatta di più collaborazione e meno ostracismo. Essendo governati da una classe politica con mandati di dubbia concretezza è come se ci mancasse la struttura portante. Come popolo siamo deontologicamente scorretti, per adattamento, equilibristi tra leggi e scappatoie, vittime di burocrazie fatte per complicarci la vita. Sarebbe ora di finirla con questa pantomima ipocrita e costruire delle basi solide che diano fiducia al prossimo. Il mio non vuole essere un pensiero pessimista, anzi, direi esortativo, ma credo che se la nostra politica non arriva a comprendere che l’intrattenimento notturno è una realtà che va curata e addirittura alimentata, anziché osteggiata, il quadro rimarrà pressoché identico. Le forze dell’ordine dovrebbero lavorare a fianco degli operatori del settore e non contro, soprattutto se c’è molto da perdere. Se si vuole che un popolo sia felice di pagare le tasse bisogna garantire che anche lo svago sia un diritto imprescindibile e tutelato. La nightlife deve essere supportata come vengono supportate le manifestazioni sportive o di interesse culturale. Probabilmente, quando l’Italia sarà tutta svenduta agli investitori esteri, le cose saranno gestite meglio (forse), ma avremo comunque perso l’occasione di affermare la nostra genuina originalità. Affinché l’intrattenimento notturno diventi una vera risorsa bisognerebbe, forse utopisticamente e forse no, che il Ministero integri un nuovo comparto nella nomenclatura attuale, esprimendosi con fatti concreti. “Ministero dei beni Culturali dello Spettacolo e del Turismo” non suonerebbe così male.
Perché se la cultura non sempre è spettacolo, viceversa invece sì.
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