C’è ancora qualche forma di clubbing oltre il lockdown? E quali sono (se ci sono) i modelli verso cui tendere o adattarsi, atteso che fino a quando non sarà possibile “assembrarsi” e sarà obbligatorio mantenere la distanza, gli eventi musicali saranno off limits?
Ad oltre due mesi di distanza dall’inizio dell’emergenza e con i dati epidemiologici in deciso miglioramento, la situazione che riguarda il settore musicale continua a essere incerta. Tra i più colpiti ed i meno aiutati, e, soprattutto, senza prospettive concrete su quando sarà possibile riprendere qualsiasi attività legata all’intrattenimento, fatta eccezione per qualche generica data.
Come noto, già da fine marzo diversi protagonisti del clubbing, insieme ai loro promoter e sulla spinta delle iniziative dei principali media player del settore, hanno spostato le proprie attività online aderendo alle varie proposte di streaming e popolando la gran parte delle piattaforme social, in un diario di creatività quotidiana in formato video che quando sarà riletto a distanza di molti anni siamo certi che rimarrà una risorsa unica nella storia della musica recente.
Nel nostro Paese, intanto, il deprimente dibattito politico legato alla corretta applicazione delle misure di contenimento previste dalla Fase 2 si è ormai arenato nelle sabbie mobili della lotta senza quartiere alla famigerata “movida”, redivivo e odioso termine che ha consentito ai decisori politici di diluire in un tutto onnicomprensivo qualsiasi forma idi aggregazione legata al divertimento per metterla preventivamente all’indice.
Una campagna tutta mediatica, quella in atto nei confronti del “temuto” aperitivo assembrato, che vorrebbe circoscrivere una serie di comportamenti irresponsabili, ma che, nei fatti non rischia altro che limitare ulteriormente le fasce delle popolazione più giovani, già private dell’istruzione sine die e che ora devono fare i conti con un progressivo ritorno alla normale socialità, contraddistinta dall’incertezza di incorrere nella temuta (quella sì) reprimenda dell’esercito degli assistenti civici.
Tuttavia, al di là delle valutazioni di carattere sanitario, l’intrattenimento dal vivo non vede spiragli per l’uscita da questo tunnel se non la data dal 15 giugno, prevista dal DPCM del 17 maggio scorso come momento dal quale si potrà tornare a sentire un concerto, seppur con le restrizioni ormai note: negli spazi chiusi non potranno esserci più di 200 persone e negli spazi aperti non più di 1000.
Resteranno, comunque, sospese fino a nuova data “le attività che abbiano luogo in sale da ballo e discoteche e locali assimilati, all’aperto o al chiuso, le fiere e i congressi“.
Un divieto senza distinzioni e senza scadenza, quello governativo, in cui alla semantica antistorica delle parole “discoteca” e “sala da ballo”, che speravamo di ritrovare definitivamente sepolte sotto la polvere in un dizionario Devoto-Oli del 1985, fa da contraltare l’assordante assenza di un provvedimento organico a tutela di un intero comparto.
Come spesso accade in questi frangenti, tuttavia, la responsabilità di una così scarsa attenzione da parte delle istituzioni è la diretta conseguenza della mancanza di rappresentanza di un settore, quale è quello dell’intrattenimento dal vivo e del clubbing in Italia, capace di fare dell’economia dell’informale, del contante e del lavoro “in nero”, quest’ultimo sottopagato e talvolta non retribuito, un’assioma inconfutabile di sopravvivenza, anteponendo il mero ricavo a qualsiasi visione di lungo periodo e soprattutto, a qualsiasi ripensamento del modello economico tradizionale applicato al concetto di evento musicale.
Già, proprio di quel modello economico che fa coesistere in modo innaturale pubblico-privato e che per anni si è beffato della cultura e della musica impoverendola fino al midollo, saccheggiando ogni ambito di creatività e ogni spazio di indipendenza dell’artista, dal promoter fino all’ultimo anello logistico della lunga filiera che si cela dietro l’organizzazione delle manifestazioni musicali; un modello dal quale oggi gli stessi “localari” nostrani sembrano voler dissociarsi dopo anni perché foriero di un’insostenibile levitazione dei cachet degli artisti e, di conseguenza, dei costi di ogni singolo evento.
Dove diritto e cultura non si incontrano è complesso riconoscere diritti (e non solo obblighi) a chi fa cultura.
Così come diventa inspiegabilmente possibile e lecito consentire ai colossi del ticketing dei grandi eventi di emettere a propria discrezione un voucher, lasciando inevase migliaia di richieste di rimborso per i concerti annullati, mentre gli staff e le organizzazioni alle prese con la cancellazione dei festival vengono messi alla berlina e triturati nell’appassionante diatriba tra refund e roll-over mentre vedono assottigliarsi i propri cashflow.
Un’occasione persa, forse irripetibile, quella che ha rappresentato per il mondo della cultura e dello spettacolo dal vivo l’attuale emergenza, che non può non farci constatare ancora una volta come non basti l’autorevolezza di alcune voci illuminate del settore che quotidianamente con il loro lavoro svolgono anche un ruolo di sensibilizzazione se questa è sistematicamente accompagnata da criptica autoreferenzialità e dal livore generalizzato di chi pretende un riconoscimento solo per aver fatto una lunga gavetta.
Il resto del desolante quadro dell’unico settore pronto ai blocchi di una surreale e mai annunciata ripartenza lo lasciamo alla burocrazia e alle centinaia di pagine dei rinvii normativi dell’ultimo decreto “Rilancio”, i quali non introducono una seria e organica riforma del comparto, capace di dare finalmente diritti ad una forza lavoro con il più alto numero di professioni non riconosciute e non tutelate tra quelle presenti in Italia, a istituzionalizzare il ruolo del club inteso come luogo di espressione artistica, musicale e aggregatore di idee, all’emersione del “nero”, alla semplificazione amministrativa e a una politica fiscale che parta dal riconoscimento della nuova categoria dell’impresa culturale e agli incentivi per investimenti tecnologici e per la sostenibilità.
Con l’effetto ultimo che le regole calate dall’alto siano scritte da una delle tante task-force di cui non è dato sapere competenze ed esperienze dei rappresentanti, senza conoscere realmente il funzionamento del settore e senza una concertazione in un tavolo tecnico aperto a coloro che provano a mantenere viva l’offerta artistica di cui lo spettacolo dal vivo è una voce non ripartita, che rappresenta il 9% del sistema produttivo culturale e creativo.
D’altra parte mentre qui in Italia poche ma forti voci corporative riescono a superare la barriera dell’indifferenza affermando legittimi interessi di parte degli autori ed editori a favore di una generale riforma del copyright (SIAE) e annunciando una possibile dimostrazione di piazza dei gestori dei “locali di ballo” contro le prolungate chiusure di cui sono destinatari, in altri Paesi europei, non senza difficoltà, nascono soluzioni alternative di divertimento aderenti alle regole del social distancing e nuove forme di clubbing che rappresentano in ogni caso delle prove tecniche di sopravvivenza almeno fino a quando la situazione non tornerà alla normalità.
In questo contesto così articolato e in un momento così incerto, possiamo accettare che l’unica alternativa allo streaming online di festival e DJ set via Twitch siano i “social distancing parties” e i “drive-in rave”?
Pur rispettando le lodevoli intenzioni degli organizzatori volte a preservare gli eventi di musica elettronica adattandoli ai mutati contesti, ci soffermiamo ad osservare queste recenti esperienze pilota, con l’obiettivo di contribuire ad alimentare un dibattito costruttivo tra i media di settore sulle reali prospettive del clubbing a partire da alcuni “segnali” di vita oltre il lockdown.
E’ di pochi giorni fa infatti la notizia che il celebre DJ e producer tedesco Gerd Janson, boss dalla label Running Back, è stato maestro di cerimonie in consolle di una festa all’aperto rispettosa dei criteri del distanziamento sociale.
Il social distancing party targato TakaTuka, che ha rappresentato allo stesso tempo il primo party in Europa dopo mesi di subwoofer spenti, è stato ospitato pochi giorni fa nel dancefloor rigidamente regolamentato del Coconut Beach Club di Münster, in Renania.
Per stare nei parametri imposti dalla legislazione locale, gli organizzatori hanno messo in vendita soltanto 100 biglietti al prezzo di 70 euro ciascuno, un numero molto esiguo rispetto alla capienza all’aperto di 2000 posti della venue.
Nonostante il prezzo elevato del biglietto, giustificato unicamente dalla copertura dei costi considerato il quasi azzeramento del margine da parte di Janson e degli organizzatori, l’evento ha registrato il tutto esaurito in 15 minuti dall’avvio della prevendita.
A tutti i partecipanti era richiesto di indossare la mascherina, e coloro che ne fossero sprovvisti potevano comprarne una sulla porta; gli spazi venivano sottoposti a sanificazione costante e una volta all’interno dell’evento a ciascun raver è stato assegnato un cerchio tracciato col gesso sul dancefloor, l’unico spazio in cui è stato permesso loro di rimuovere le protezioni individuali, nel rispetto della distanza di almeno 1,5 metri l’uno dall’altro.
Le barriere in plexiglass sono state adottate anche per separare la consolle sopraelevata dal dancefloor, mentre i pagamenti in contanti sono stati fortemente disincentivati.
Social distancing rave with Gerd Janson in Münster
In what might be the first dance party in Europe in months, Gerd Janson played to a small, socially distanced crowd in Münster last night.
Pubblicato da Resident Advisor su Venerdì 22 maggio 2020
L’effetto finale, come testimonia questo video diffuso sui social, ricorda per certi versi le recenti esperienze della “silent disco” benché in questo caso la musica fosse unica per tutti i partecipanti.
“Ero ben consapevole del fatto che non si trattava affatto di un party tradizionale – ha detto Gerd Janson a proposito dell’evento – Ero già stato invitato a suonare per quella data prima della pandemia, così, quando sono stato avvisato che sarebbe stata un’edizione notevolmente ridotta con al massimo 100 partecipanti all’inizio ho pensato ad uno scherzo ma poi ho deciso di accettare”.
Rimanendo in Germania, la techno ha scaldato i motori pochi giorni fa anche a Schüttorf, una città della Bassa Sassonia vicino al confine olandese, dove il club Index ha ospitato uno dei primi drive-in rave della storia aperto a 250 autoveicoli, con al loro interno non più di 2 persone ciascuno, ordinatamente distanziate in un apposito enorme parcheggio posizionato davanti al palco dove si sono esibiti i DJ Nitefield , MarvU e Devin Wild: il pubblico poteva ascoltare la musica sia dal sound system che attraverso uno streaming radio dedicato direttamente nell’abitacolo.
Crazy car rave!
Pubblicato da Mixmag su Sabato 2 maggio 2020
Intervistato a margine dell’evento Nitefield ha dichiarato “Non avevamo alcuna interazione il pubblico, quindi è stato davvero difficile coinvolgerli; alcune persone hanno iniziato a suonare il clacson delle loro auto, cosa che ci ha restituito un buon feedback e da quel momento in poi siamo riusciti a comunicare con loro e abbiamo potuto trasformare questo evento in qualcosa di veramente personale“.
Notizie di altri car rave ed eventi musicali in programma nelle prossime settimane, o già sperimentati con esito positivo, arrivano nelle ultime ore da Dusseldorf e da Aarhus, in Danimarca.