Saycet, poliedrico artista e compositore francese, si racconta su Parkett tra la produzione di musica elettronica e la sua passione per il cinema.
Saycet rappresenta in maniera limpida l’anello di congiunzione tra cinema e musica elettronica. Pierre Lefreuve, parigino di nascita, viaggia in un fiume di confine decisamente navigato, ma la cui traversata non è affatto semplice. Quello della composizione di colonne sonore da parte di produttori elettronici.
Saycet non nasce nel mondo delle colonne sonore, ma dopo l’esperienza del 2019 nella pellicola “Un Vrai Bonhomme” di Benjamin Parent il cinema diventa l’ambiente ideale per sviluppare ed arricchire la propria espressione artistica di nuove sfumature.
Un percorso che lo ha portato a comporre la colonna sonora del documentario “Bastard Lion” insieme a Laurent Garnier, la soundtrack intera della serie sulla rivoluzione francese “La Revolution” trasmessa su Netflix e in ultimo, non per importanza, sulla Croisette di Cannes nel film di Noemie Merlant “Mi Iubita, Mon Amour”.
Ma l’attività come producer ed interprete di quella tradizione elettronica malinconica francese, risale al suo primo lavoro discografico “One Day at Home”, uscito nel lontano 2005. In questi sedici anni il sound di Saycet si è evoluto tra influenze pop melodiche, sonorità uptempo e la formazione classica che vede strumenti tradizionali, in particolare il pianoforte, elemento centrale attorno a cui ruota la sua poetica compositiva.
“Layers” uscito lo scorso ottobre racconta, attraverso un cammino musicale per immagini in movimento, gli ultimi sei anni di sperimentazione musicale dell’artista parigino spaziando tra melodie classiche, techno malinconica e suoni sperimentali in una miscela di impatto e assolutamente ricca delle esperienze maturate negli ultimi anni a livello cinematografico.
Oggi esce una nuova versione di “Layers”, la release “Sleepless” una versione dal vivo del lavoro discografico registrata durante lo spettaccolo alla Salle Pleyel. Saycet ha riportato i dieci brani in una dimensione sonora nuova integrando elementi vocali e ridando ad alcune melodie nuove vibrazioni, calando la sua opera in una dimensione concertistica decisamente più vicina a quella clubbing.
Oggi abbiamo avuto il piacere di intervistare Saycet qui su Parkett per raccontare la sua direzione musicale e la complessità dietro il suo progetto così ricco ed ambizioso.
Benvenuto su Parkett. È un piacere per noi averti come nostro ospite. Vorrei partire da un concetto fondamentale nella tua musica: la sperimentazione. Un concetto assorbito, forse quasi un imperativo per la musica del nuovo millennio, e che a volte non necessariamente dona risultati equilibrati e illuminati. Tu sei, a mio parere, emblema del concetto di corretta sperimentazione, e vorrei sapere qual è il significato che assume nella tua arte.
Vedo la sperimentazione come un gioco, è una specie di modo per non cadere in una certa routine di produzione o composizione. È necessario per me; è e rimarrà il mio motore. L’obiettivo, tuttavia, è renderlo accessibile e comprensibile all’ascoltatore.
Le tue melodie nascono spesso da un accordo di pianoforte e poi integrano successivamente strumenti tecnologici. Quali sono stati gli studi che ti hanno portato a sviluppare un tuo modo di fare musica e come si è evoluto questo processo negli anni?
Ho studiato da autodidatta pianoforte dall’età di 5 anni, poi chitarra. Ho un rapporto abbastanza istintivo con la composizione, quindi attraverso i miei studi in ingegneria del suono, ho potuto sfruttare al meglio le tecniche per produrre a modo mio come le melodie che suono istintivamente al pianoforte, tramite sintetizzatori o con altre tecniche di produzione che ho imparato nel tempo.
“Layers” è il tuo ultimo album, un titolo che evidenzia la stratificazione compositiva del disco e il suo processo creativo durato sei anni, fotografando, immagino, momenti diversi della tua vita. Perché questo processo ha richiesto tutto questo tempo e quando hai capito che era un lavoro compiuto?
Ci sono voluti sei anni perché non avevo fretta. Mi ci è voluto molto tempo per trovare la forma e non la sostanza. Le composizioni sono state quasi tutte scritte sei anni fa ma non sapevo che forma volevo che avessero. Non appena ho trovato coerenza tra loro, ho capito che era pronto.
Viviamo in un’epoca in cui il successo arriva da un giorno all’altro dove gli artisti si fanno conoscere attraverso le piattaforme e magari riescono a raggiungere alti livelli di popolarità con una hit per poi cadere nel dimenticatoio. Quando ascolto “Layers”, invece, posso apprezzare tutto il tuo lungo percorso e una certa maturità artistica e consapevolezza che hai acquisito nel tempo. Fino a che punto pensi che l’etica del lavoro e del sacrificio sia importante per formarsi artisticamente?
Questa è un’ottima domanda e francamente non posso rispondere in maniera netta. Non sto pensando in questi termini, il fatto che il “successo” non sia lì per cominciare, significa che fai le cose con molto istinto e non hai nessun obbligo per mantenere il successo che in quel momento non hai ancora raggiunto. La maturità o il mio personale percorso è influenzato semplicemente dal fatto che non ho pressioni commerciali per pubblicare un disco. Ho la possibilità di vivere della mia musica, ma non dipende dai miei album, quindi cerco di non pensare troppo in questa direzione e mi lascio andare ai miei desideri.
All’interno del disco ho particolarmente apprezzato il brano in collaborazione con Joseph Schiano di Lombro. Come è nato questo incontro e questa perfetta sintesi tra classicismo e musica elettronica che si esprime in questo brano in modo così naturale?
Verso la fine del disco, stavo cercando un pianista per fare una cover di “Mother” e mi è stato presentato Joseph che ha accettato dopo aver ascoltato la canzone. Quando mi ha inviato la sua prima registrazione, ho pensato che meritasse più di una semplice cover e l’ho invitato a passare un po’ di tempo nel mio studio in modo da poterne fare una composizione completa. Lo lasciavo suonare e improvvisare sugli accordi dei miei brani e stavo registrando tutto quel materiale sonoro. Quando se ne è andato, ho messo insieme diverse parti in modo abbastanza naturale e ho ri-arrangiato alcuni momenti chiave. Ho inviato il risultato a Joseph ed è piaciuto ad entrambi. Quindi ho deciso di tenere questa traccia nell’album quando inizialmente non doveva essere compresa nel disco.
So che hai lavorato a questo disco nel tuo studio, una vecchia bottega parigina che hai poi trasformato nel tuo appartamento e studio di produzione, quasi a rimandare ad una visione artigianale del tuo lavoro. In questa “bottega dell’ artigiano” quali sono gli strumenti essenziali che utilizzi per comporre musica e quali vorresti integrare in futuro?
Lo strumento essenziale per me oggi è lo studio. Se voglio essere più preciso, è l’acustica della stanza, i miei altoparlanti di monitoraggio, 2 o 3 sintetizzatori come il Prophet 8, il Mini Moog, il Juno 106 e il mio vecchio pianoforte. Dopo non so se tutte le mie nuove acquisizioni mi daranno più spunti… come si dice “less is more”.
Parigi è la città in cui vivi, una città che credo possa nascondere un elemento di ispirazione in ogni angolo. Quali sono le attività che svolgi accanto alla musica che influenzano il tuo modo di comporre e che in qualche modo rappresentano interessi e influenze sulla tua personalità?
Amo Parigi. Sono parigino di nascita, e mi muovo molto a piedi a Parigi, camminare in questa città è molto importante per me. L’altra mia attività parigina è mangiare e bere bene. Ho la fortuna di vivere in una città e in un quartiere dove ci sono molti posti dove puoi divertirti e bere del buon vino, è abbastanza semplice ma onestamente cosa c’è di meglio nella vita?
Un ruolo importante nella tua musica è senza dubbio la produzione destinata alla cinematografia. Innanzitutto vorrei sapere come ti sei avvicinato al mondo del cinema, come è nato il rapporto con alcune realtà cinematografiche, come varia il tuo approccio rispetto alla produzione tradizionale in questo ambito.
Dall’inizio della mia carriera, compongo per formati video, che si tratti di pubblicità o cortometraggi. Anche le musiche dei miei album sono state sincronizzate su film di ogni genere. Quindi è stato abbastanza naturale che mi sia avvicinato al mondo del cinema. Per me è il frutto di un lungo e duro lavoro, ed è stato il mio primo desiderio. Mi avvicino a questa operazione alla stregua di un album, con istinto, solo che questa volta sono al servizio di un regista e di un narratore. Ma in termini di stile o di mio valore aggiunto rispetto ad altri profili, vedo il mio lavoro più come una certa sensibilità al rapporto con il film musicale, cercando di non rimanere bloccati su uno stile particolare. C’è chiaramente un sound designer legato alla composizione nel mio lavoro. È in definitiva un profilo classico per i compositori che provengono dalla musica elettronica. Penso che ci siano molti riferimenti nel mondo delle colonne sonore.
Essendo italiana, ovviamente una figura di riferimento per me è Ennio Morricone. Non so se sia stata una figura influente nella tua formazione, ma suppongo che tu conosca parte del suo lavoro e mi piacerebbe sapere cosa pensi del suo modo di tradurre il cinema in musica.
Ennio Morricone è un maestro per molti di noi, proprio perché ha superato i codici della musica da film. Quando prima parlavo di sound design sull’argomento, per me Morricone lo ha fatto prima di chiunque altro. Associa un suono molto preciso e insolito ad un film. Il tema è in definitiva la scrittura e soprattutto gli arrangiamenti, sempre così particolari e così visivi nell’universo dei film a cui ha lavorato.
“La Revolution” è stata la serie Netflix che ha senza dubbio segnato un tuo momento importante. Comporre un’intera colonna sonora lavorando con ventidue elementi orchestrali penso sia stata una bella sfida. Di fronte a un’opera così monumentale c’è inevitabilmente un confronto con riferimenti precedenti. Nell’elettronica ognuno possiede un personale marchio di fabbrica, ma nella composizione di colonne sonore qual è il modo per lasciare una propria traccia riconoscibile?
Proprio per riprendermi da Morricone, penso che lasciare un segno riconoscibile su una partitura di un’opera sia prendere il tuo universo e collocarlo sul soggetto del film su cui stai lavorando. “La Revolution” era in definitiva abbastanza semplice in termini di direzione artistica. Volevo mescolare gli strumenti più popolari dell’epoca (quartetto d’archi, clavicembali e cori) con un’elettronica fantastica. Una volta trovata questa direzione, il resto richiede molto lavoro, ma abbiamo un filo conduttore su cui costruire.
Per il documentario “Bastard Lion” ti sei trovato a collaborare con un colosso della musica elettronica, Laurent Garnier. Com’è stato lavorare insieme e qual è il consiglio più prezioso che Laurent ti ha dato?
Lavorare con Laurent è stata un’esperienza incredibile e allo stesso tempo molto frustrante perché non ci siamo mai visti, e il regista sapeva molto bene su quali scene voleva l’intervento di Garnier e su quali scene voleva Saycet. In base a questo principio, la nostra collaborazione è stata piuttosto limitata, ma abbiamo ascoltato il lavoro di tutti sul film per non fare proposte opposte tra loro su scene diverse. È una persona incredibilmente premurosa e positiva e alla fine del film mi ha detto che gli piaceva il mio lavoro. Quello che ricordo precisamente del mio lavoro con lui è di fidarmi di me stesso e di mostrare fiducia nelle mie collaborazioni attraverso i progetti. È essenziale.
Hai suonato alla Reggia di Versailles, luogo simbolo per tutta la Francia, creando uno spettacolo unico nel confronto tra le spettacolari immagini del palazzo e la tua musica potente e carica di emozione. Com’è stata questa esperienza e ti piacerebbe lavorare ancora su questo tema in futuro, magari creando un nuovo format espositivo in luoghi carichi di storia?
Questa esperienza alla Reggia di Versailles è stata e rimarrà uno dei momenti più belli della mia carriera. Non ho abbastanza parole per esprimere davvero come mi sento a riguardo. Simbolicamente come persona francese, è un luogo molto speciale pieno di molteplici storie. Artisticamente molto ricco. Immergersi nel palazzo e trascorrervi un’intera settimana giorno e notte è stato un momento senza tempo. Soprattutto se lo mettiamo nel contesto dell’epoca, poiché eravamo in pieno lockdown della seconda ondata di Covid in Francia. Tutto era chiuso e le strade erano deserte di notte e la vita era un po’ sospesa. Trovo che questo si possa sentire bene nel mio lavoro al castello, questo lato spettrale legato a questo momento così speciale che tutti stiamo vivendo, che per ironia della sorte è legato ad un altro luogo storico. Ovviamente mi piacerebbe fare altre esperienze di questo tipo in altri luoghi ricchi di storia, ma non mi pongo proprio la domanda e lascio che la vita faccia il suo corso, vedremo dove mi porterà.
In questo lungo viaggio, ricco di esperienze, quali sono gli obiettivi che ti vuoi prefiggere per i prossimi anni e gli obiettivi che senti di dover ancora raggiungere, se ce ne sono ovviamente?
Mi piacerebbe davvero ambientarmi in un modo più sostenibile nella musica da film perché è un universo in cui mi sento bene. Ovviamente vorrei fare più concerti e in generale essere più consapevole della fortuna che ho.
Saycet ci lascia con una playlist delle sue colonne sonore preferite di tutti i tempi. Grazie per essere stato nostro ospite.
ENGLISH VERSION
Welcome to Parkett. It’s a pleasure for us to have you as our guest. I would like to start from a concept that is fundamental in your music – experimentation. An absorbed concept, perhaps almost an imperative for the music of the new millennia and which sometimes doesn’t necessarily give balanced and enlightened results. In my opinion, you are an emblem of the concept of correct experimentation, and I would like to know what is the meaning it assumes in your art.
I see experimentation as a game, it’s kind of a way of not falling into a certain routine of production or composition. It is necessary for me; it is and will remain my engine. The goal, however, is to make it accessible to the listener.
Your melodies often arise from a piano chord and then integrate technological instruments. What were the studies that led you to develop your own way of making music and how has this process evolved over the years?
I have self-taught piano training since I was 5 years old, then guitar. I have a fairly instinctive relationship to composition, then through my studies in sound engineering, I was able to make the most of the techniques to produce in my own way such as the melodies that I instinctively play on the piano, via synthesizers or with the production techniques I’ve learned over time.
“Layers” is your latest album, to highlight the compositional layering of the disc and its creative process that lasted 6 years, photographing I imagine different moments in your life. Why did this process take all this time and when did you realize it was a job done?
It took six years because I was not in a hurry. It took me a long time to find the form and not the substance. The compositions were almost all written six years ago but I didn’t know what shape I wanted them to be. As soon as I found consistency between them, I knew it was ready.
We live in an era where success comes overnight where artists make themselves known through platforms and maybe manage to reach high levels of popularity with a hit and then fall into oblivion. When I listen to “Layers”, on the other hand, I can appreciate all your long journey and a certain artistic maturity and awareness that has been acquired over time. To what extent do you think the ethic of the mess and sacrifice are important to form artistically?
That’s a very good question and frankly I cannot answer it clearly. I’m not thinking in those terms, the fact that “success” isn’t there to begin with, means that you do things with a lot of instinct and no obligation to maintain the success which isn’t there. The maturity or the course comes simply from the fact that I have no commercial pressure to release a record. I have the chance to live from my music, but it does not depend on my albums, so I try not to think too much in this direction and just let myself go to my desires.
Inside the record I particularly appreciated the track in collaboration with Joseph Schiano di Lombro. How was this meeting and this perfect synthesis between classicism and electronic music born which is expressed in this piece in such a natural way?
Towards the end of the record, I was looking for a pianist to do a cover of Mother and I was introduced to Joseph who accepted after listening to the song. When he sent me his first recording, I thought it deserved more than just a cover and I invited him to spend some time in my studio so that we could make a full composition of it. I let him play and improvise on Mother’s chords and I was recording all that sound material. When he left, I put several parts together quite naturally and re-arranged some key moments. I sent the result to Joseph and we both liked it, so I decided to keep this track on the album when it wasn’t supposed to be there.
I know that you worked on this record in your studio, which is an old Parisian shop that you then transformed into your apartment and studio, as if to refer to an artisan vision of your work. In this “artisan’s workshop” what are the essential tools you use to compose music and which ones you would like to integrate in the future?
The essential tool for me today is the studio. If I want to be more precise, it is the acoustics of the room, my monitoring speakers, two or three synthesizers like the Prophet 8, the Mini Moog, the Juno 106 and my old one piano. Afterwards I don’t know if all my new acquisitions will give me more ideas … as we say “less is more”.
Paris is the city where you live, a city that I believe can hide an element of inspiration in every corner. What are the activities that you carry out alongside the music that affect your way of composing and that in some way represent interests and influences on your personality?
I love Paris. I am Parisian by birth, and I move a lot on foot in Paris, walking in this city is very important to me. My other Parisian activity is to eat and drink well. I am lucky to live in a city and in a neighborhood where there are a lot of places where you can enjoy yourself and drink good wine, it’s quite basic but honestly what is the best in life?
An important role in your music is undoubtedly the production destined for cinematography. First of all, I would like to know how you approached the world of cinema, how the relationship with some cinematographic realities were born, how your approach varies with respect to traditional production in this area.
Since the start of my career, I have been composing for video formats, whether it be for advertising or short films. The music for my albums have also been synchronized on films of all kinds. So, it was quite natural that I approached the world of cinema. For me it is the fruit of a long hard work, and it was my very first wish. I approach this work in the same way as an album, with instinct, except that this time I am at the service of a director and a narrator. But in terms of style or my added value compared to other profiles, I see my work more as a certain sensitivity to the music film relationship, trying not to get stuck in a particular style. There is clearly a sound designer related to composition in my work. It is ultimately a classic profile for composers who come from electronic music.
I think there are many references in the world of soundtracks. Being Italian, obviously a reference figure for me is Ennio Morricone. I don’t know if she was an influential figure in your training, but I suppose you know part of her work and I’d like to know what you think about her way of translating cinema into music.
Ennio Morricone is a master for many of us, precisely because he has surpassed the codes of film music. When I was talking about sound design on the matter before, for me, Morricone has done this way before anyone else. Associate a very precise and unusual sound with a film. The theme is ultimately the writing and above all the arrangements, always so particular and so visual in the universe of the films on which he has worked.
“La Revolution” was the Netflix series that undoubtedly marked an important moment of yours. Composing an entire soundtrack working with twenty-two orchestral elements I think was quite a challenge. Faced with such a monumental work there is inevitably a comparison with previous works. In electronics there is its own trademark, but in the composition of soundtracks what is the way to leave your own recognizable trace?
Precisely to bounce back from Morricone, I think that leaving a recognizable mark on a score of work is to take your universe and place it on the subject of the film you are working on. La Revolution was ultimately quite simple in terms of artistic direction. I wanted to mix the most popular instruments of the time (string quartet, harpsichords, and choirs) with fantastic electronics. Once this direction has been found, the rest requires a lot of work, but we have a common thread to build on.
For the documentary “Bastard Lion” you found yourself collaborating with a giant of electronic music, Laurent Garnier. What was it like working together and what is the most precious advice Laurent has given you?
Working with Laurent was an incredible experience and at the same time very frustrating because we have never seen each other, and the director knew very well which scenes he wanted Garnier and on which scenes he wanted Saycet. Based on this principle, our collaboration was quite limited, but we listened to everyone’s work on the film so as not to make proposals that were the opposite of each other on different scenes. He is an incredibly caring and positive person and at the end of the film, he told me that he liked my work. Precisely what I remember from my work with him is to trust himself and to show confidence in my collaborations across projects. It’s essential.
You played at the Palace of Versailles, a symbolic place for the whole of France, creating a unique show in the confrontation between the spectacular images of the palace and your powerful and full of emotion music. How was this experience and would you like to work on this theme again in the future, perhaps creating a new exhibition format in places full of history?
This creation for the Palace of Versailles was and will remain one of the most beautiful moments of my career. I do not have enough words to really express how I feel about it. Symbolically as a French person, it is a very special place full of multiple histories and artistically very rich. Immersing yourself in the palace and spending an entire week there day and night was a timeless moment. Especially if we put it in the context of the time, as we were in full lockdown of the second wave of covid in France. Everything was closed and the streets were deserted at night and life was a bit suspended. I find that you can feel this well in my work at the castle, this ghostly side linked to this very special moment that we are all living in, which with irony is attached to another historical place. Of course, I would like to do other experience of this type in other places steeped in history, but I don’t really ask myself the question and I let life take its course, we’ll see where it will take me
In this long journey, full of experiences, what are the goals you want to set for yourself for the next few years and the goals you feel you still must reach, if there are any of course?
I would really like to settle down in a more sustainable way in film music as it’s a universe in which I feel good. I would obviously like to do more concerts and generally to be more aware of the luck that I have.