Cosa hanno in comune John Coltrane, i Massive Attack e J Dilla? A conti fatti sembrerebbe nulla. Ma non è così per chi mastica la musica Jazz e ne trae ispirazione per creare un disco fuori da ogni schema: questo è il viaggio “IKI – Bellezza Ispiratrice” di Francesco Cavestri.
Il percorso musicale di Cavestri si sviluppa verso la scoperta del jazz nella sua forma più libera e aperta, tracciando un legame tra generi e artisti che si riflette in un’incessante innovazione. Il titolo stesso del suo ultimo album, “IKI – Bellezza Ispiratrice“, rivela l’ispirazione tratta dalla filosofia giapponese che richiede un’anima aperta e disponibile al mutamento, concetto riflessivo del Mitsudomoe sulla copertina dell’album.
Questo lavoro presenta sei tracce originali, ognuna intrisa di una fusione tra jazz e musica elettronica, mantenendo sempre il pianoforte al centro della narrazione sonora. L’album si apre con un omaggio al monologo di Steiner da “La Dolce Vita” di Fellini, e si chiude con la traccia “IKI – Bellezza Ispiratrice”, arricchita dalla collaborazione del leggendario trombettista Paolo Fresu.
Il coinvolgimento di Fresu, insieme al batterista Cleon Edwards e altri talentuosi musicisti, aggiunge una profondità e una varietà alla produzione di Cavestri. Le tracce mostrano una dualità tra jazz e hip hop, testimoniando la continua esplorazione e fusione di generi da parte dell’artista.
Insomma la sua missione musicale è quella di permettere di conoscere vari generi e varie sonorità. Produrre una musica impegnata, ma sempre fruibile. Vai avanti e leggi la nostra intervista.
Partiamo con le presentazioni. Alcuni dei nostri lettori non conoscono questa realtà e il tuo nome. Come mai ti sei avvicinato alla musica? quando hai cominciato a studiare pianoforte? Come mai hai deciso di scegliere un genere come il jazz?
Ho iniziato a studiare a 4 anni prima pianoforte classico. Ho fatto tanti anni di pianoforte classico che mi sono serviti molto; poi ho approcciato lo studio del jazz. Avere una forte formazione di pianoforte classico, soprattutto dal punto di vista tecnico, mi ha facilitato nell’intraprendere questo genere.
Mi sono avvicinato al jazz intorno ai 12/13 anni, durante la mia frequentazione delle medie musicali e poi sono entrato in conservatorio in contemporanea con il liceo. Ho fatto tutto un percorso di conservatorio di pianoforte jazz che ho poi concluso nel 2023 con la laurea con il massimo dei voti al conservatorio di Bologna.
Nel frattempo, durante gli anni del conservatorio, ho anche sviluppato una passione, un’attenzione ed un ascolto particolare verso altri generi di musica soprattutto verso l’hip hop e la musica elettronica e soprattutto nell’incontro di questi generi con il jazz.
Come dicevo prima, intorno ai 12 e 13 anni è sbocciata questa passione per il jazz. Ho avuto quei due anni di periodo che definisco di jazz snob è un periodo che tutti i jazzisti nella loro formazione attraversano.
“Jazz snob” è un periodo in cui esiste solo il jazz, si ascolta solo jazz e non c’è nient’altro al di fuori del jazz. Alcuni musicisti rimangono inscastrati in questo periodo, mentre altri ne escono ed io per fortuna ne sono uscito e ho scoperto la bellezza di altri generi come quelli che ho ascoltato prima.
Tu prima hai parlato del jazzsnob, ora cosa stai ascoltando? Mi dici un paio di ascolti nella tua playlist giornaliera? 5 canzoni che ti hanno colpito dell’ultimo periodo e che ascolti in loop negli ultimi giorni.
Sicuramente “Tell me” di James Blake (dell’ultimo album). Che ho amato e consumato sin dal primo giorno e che è uscito tra fine 2023 e 2024; poi “Grammar” di Floating Points.
Floating Points è un grandissimo produttore che ha legato moltissimo il mondo del jazz con il mondo della musica elettronica e lo ha fatto mantenendo fede al jazz anche nella sua forma tradizionale coinvolgendo artisti come Pharoah Sanders nel suo ultimo album.
Pharoah Sanders è uno dei più grandi saxofonisti della storia del jazz ed è morto nello stesso anno di pubblicazione dell’album (2021). Lui era molto anziano e non entrava negli studi di registrazione da 16 anni; è rientrato negli studi di registrazione dopo 16 anni, quasi a mo’ di testamento della sua carriera, per registrare un album con Floating Points che è un produttore di musica elettronica – e lui è un dj a tutti gli effetti.
Immagino che questa dimensione musicale, fatta di contaminazione sia molto appagante per te.
Questi sono i rapporti che amo esplorare, che mi piace conoscere e che amo interpretare anche nella mia musica. Andando molto indietro nel tempo, c’è la colonna sonora dell’ascensore per il patibolo scritta da Miles Davis. È un album del ’57 credo ed è una splendida colonna sonora di un film meraviglioso.
C’è stato quest’anno anche il nono anniversario dell’uscita di “To Pimp a Butterfly”, album splendido di Kendrick Lamar. Lui è sicuramente uno degli artisti che ascolto di più.
In questo periodo sono particolarmente in fissa con i Radiohead, un gruppo che amo moltissimo e quindi ti direi “Everything In It is Right Place” che ho anche reinterpretato nel mio ultimo album.
Comunque, all’interno di questo tuo disco ho sentito tanta sperimentazione. Jazz e musica elettronica cosa hanno in comune? Io ti propongo la mia risposta: la libertà. È una libertà regolata in un caos senza regolere di un amplificatore multicanale.
Sono d’accordissimo. Per me “libertà” è anche sinonimo di “ricerca”: c’è questa tendenza che li lega ed infatti è anche il motivo per cui mi affasciano le ricerche comuni a questi generi; c’è una continua voglia di innovare se stessi e di innovare la propria musica cercando suoni nuovi. Cosa che la musica classica non ha.
Anche Stefano Bollani, un grande pianista sia Jazz che classico, dice che uno dei rischi del jazz è quello che diventi una musica da museo, come la musica classica. Purtroppo viviamo in un’epoca in cui, da un lato, ci sono quei jazzisti che escono, come me, dalla fase di “jazzsnobbismo”; e altri invece rimangono incastrati nel jazz tradizionale.
E pensi sia un male questa visione “conservatrice”?
Si, perché offusca ed ostacola il progresso dello sviluppo che invece è intrinseco nel jazz, la cui componente fondamentale è quella dell’improvvisazione. L’improvvisazione implica per definizione la ricerca. Ed è anche un tratto della musica elettronica che forse sono i due generi in cui l’improvvisazione è più prevista.
Anche l’improvvisazione elettronica, la costruzione di loop, di groove su cui improvvisare ed aggiungere suoni, textures ed emisferi sonori – anche molto diversi e sperimentali – è nella definizione della musica elettronica.
Questo è un tratto fondamentale, cioè una libertà che non è fine a se stessa ma che è volta sempre alla ricerca di nuove soluzioni e di innovazione. Ed è molto affascinante.
Quali sono secondo te i punti che invece distanziano questi due generi?
Secondo me non esiste in generale un punto di rottura o di debolezza. Dipende sempre da come viene mediata e poi resa creativamente questo caos. Secondo me una distinzione è proprio il focus. Il punto in comune lo abbiamo individuato prima ed è molto interessante ed affascinante.
La distinzione è che mentre nel jazz resta comunque un genere fortemente legato – ed in grande simbiosi – con la pratica strumentale, con il virtuosismo sullo strumento in certi casi, seppur contaminato come nel mio album da tanti generi musicali come l’elettronica dei Massive Attack o l’hip hop di J Dilla.
Nell’elettronica questo non è che si perde, infatti ci sono molti produttori di musica elettronica che hanno una forte conoscenza dello strumento (come pianoforte, chitarra, fiato, arco), però il focus è centrato sul suono e sulla capacità di trasmettere emozioni tramite il suono.
Spiegami meglio.
Nell’elettronica il controllo è più del suono e quindi c’è una conoscenza anche fisica di come gestirlo. Questo perché l’elettronica è anche usata nelle forme più minimali: ti permette di raggiungere una potenza sonora che è potenzialmente infinita e che devi per forza di cose saperla controllare e gestire.
Per farlo devi avere una conoscenza di quelli che sono i funzionamenti generali del suono. Quindi credo che la distinzione principale sia questa, cioè sia la base di partenza; poi tutto il resto in realtà si può unire e si può contaminare.
Una cosa che mi piaceva sottolineare del tuo album è la sua “dynamis“. “IKI” è un costante cambiamento, una evoluzione continua di toni, colori e immagini. Schopennhauer diceva che la musica è la forma più alta di arte, in grado di superare anche quella statica noia di Boudleriana memoria. Ci sono stati cambiamenti e forze contrastanti, magari anche durante la gestazione del progetto, che ti hanno portato a modificare la tua idea iniziale?
Si sicuramente. A differenza del mio primo album che si chiama “Early17” in cui esploravo contaminazioni tra jazz e hip hop – c’erano diverse citazioni a dei nomi come J Dilla o MF Doom e a MadLib – l’album è stato costruito nella forma più consueta del trio, cioè pianoforte, basso e batteria.
Ha quindi i pari nella dimensione esclusivamente del jazz con qualche accennata contaminazione. Quell’album era nato in una sessione di registrazione di tre giorni e le sfumature elettroniche erano state aggiunte nel corso dei mesi.
L’album di ora invece è nato nel corso di un anno: il primo brano dell’album in ordine cronologico che ho scritto è “Distaccati (da la dolce vita)” e l’ho scritta a settembre 2022; mentre, l’ultima l’ho conclusa a maggio del 2023. È stato un album la cui gestazione ha richiesto un po’ di tempo.
Ciò mi ha permesso di ottenere quello che cercavo, cioè un album che in sole 6 brani riuscisse a condensare tutte le mie influenze, le mie ispirazioni, i miei ascolti e tutto ciò che mi affascina. Quindi per rispondere alla tua domanda, questo è un album che è stato costruito in un anno e che risente di una lunga gestazione di un anno durante il quale ho assorbito tante influenze reinterpretandole.
Dunque, pensi di aver espresso tutto te stesso e tutte le tue influenze in questo album?
È un album di 6 brani, tutte nell’ambito del richiamo del jazz e della contaminazione col jazz, che però riesce a evocare generi come la musica house come in “Apollineo e dionisiaco” – e che richiama la filosofia nieztchiana. Ma come è il caso appunto di Radiohead con il legame di “Everything in its right place“; o con “Naima” di John Coltrane o il trip hop di Massive Attack.
Ma anche Miles Davis la cui voce è campionata nell’ultimo brano dell’album. Nell’ultimo brano dell’album ci sono io al piano, Paolo Fresu alla tromba e il campionamento di Miles Davis.
È un album che presenta non solo interazioni tra più generi, ma anche interazioni tra più forme d’arte: c’è musica; filosofia con il suo riferimento all’iki, che è una filosofia giapponese; c’è il cinema.
Nella prima traccia, infatti, che è anche quella più elettronica dell’album e più di rottura con la formazione jazzistica, è costruito su un mantra ripetitivo che entra nella pancia dell’ascoltatore. Questo mantra elettronico è costruito intorno ad un monologo tratto da “La Dolce Vita” di Fellini: il monologo si conclude con la parola “distaccati” che di fatto dà il titolo al brano.
“Distàccati” o “distaccàti”. Ora che l’album è concluso senti di dover prendere le distanze per evolverti o pensi che possa essere un punto di partenza ulteriore per qualcosa di futuro?
Credo di aver trovato la strada da intraprendere e di aver proposto una forma musicale che in italia soprattutto è poco presente. C’è molto margine di esplorazione in questa direzione: un jazz che è nuovo, non immediato da comprendere ma che è allo stesso tempo non è di difficile ascolto.
Questa credo sia la strada che ho trovato: ho in mente di approfondire ulteriormente il linguaggio ed in realtà lo sto già facendo. C’è stato un distacco, ma adesso nel distacco mi sono ritrovato. “Distaccati” è anche una provocazione: come dicevo prima questa traccia è la prima dell’album e ha anche la minor componente di jazz in tutto l’album.
Quel brano lì è stato inserito all’inizio perché voleva essere come una esplorazione totale che aprisse l’atmosfera e scaldasse l’atmosfera per l’esplorazione che avviene poi nel corso delle tracce successive. Oltretutto, l’iki è un termine della filosofia giapponese a cui mi sono ispirato e che indica la ricerca estetica passionata e costante.
L’iki è una successione di momenti nella filosofia giapponese: sono 3 momenti ed il momento culminante ultimo e più importante è proprio quello del distacco. Ecco che ritorna il tema della prima traccia “distaccati”: c’è quindi una circolarità nel corso dell’album che dà anche un senso filosofico e di pensiero all’album.
In questo album c’è una canzone molto suggestiva che si chiama “Apollineo e dinisiaco”. Due opposti che si attraggono, come la bellezza e la bruttezza. Tutto tende verso la perfezione, al sublime.. Come pensi possa essere raccontata attraverso un movimento musicale l’elemento estetico?
Interessante. Sicuramente ricevendo ed accogliendo le bellezze che ho ricevuto dall’ascolto della musica e che poi ho trasportato e reinterpretato nella composizione e nella produzione dei miei brani.
Quindi la bellezza ispiratrice di cui parlo in realtà è una bellezza singolare, ma molteplice e che si riferisce alle molteplici influenze e alle molteplici ispirazioni che hanno caratterizzato lo sviluppo dell’album. E che poi io ho assorbito ed ascoltato in maniera inconscia.
Lo ripeto sempre: la cosa importante per un musicista, ancor prima di suonare e di mettersi alla prova, è ascoltare perché quello che si assorbe, si conosce o si impara in maniera inconscia dall’ascolto poi inevitabilmente viene fuori ed emerge nel momento in cui ti appresti a praticarlo in prima persona e attivamente. Le bellezze ispiratrice di cui l’album è denso sono proprio queste e che sono poi quelle che ho ricevuto. Lo stesso Paolo Fresu è stato fonte di ispirazione e poi ci ho collaborato.
Immagino sia stata una bella soddisfazione personale oltre che artistica avere un talento come quello di Paolo Fresu per il tuo album.
È bello quando una fonte di ispirazione e quindi un artista che si ascolta e si apprezza poi collabora attivamente in prima persona allo sviluppo dell’album. Tutte queste fonti di ispirazioni sono state mescolate e metabolizzate da me scaturendo poi nello sviluppo delle tracce. Questo è il metodo che seguo sempre: è un metodo divergente nel momento in cui assorbo influenze diverse che poi convergono nello sviluppo della musica.
Le bellezze quindi sono più di ispirazione che ispiranti: non è un album che vuole tanto ispirare ma che vuole ispirare raccontando come prima di tutto è stato ispirato.
Voglio chiudere questa chiacchierata con una citazione di Jeff Mills: “la techno non è nata come musica per ballare, ma come espressione del futuro” ed è la più grande espressione per raccontare la meglio gioventù. Detto questo, pensi possa ancora riuscire a raccontare il mondo delle generazioni e ad essere uno strumento di cambiamento culturale come era magari negli anni ’80-’90?
Sì, lo è sempre, lo deve essere sempre. Purtroppo spesso la musica ormai viene relegata quasi esclusivamente a forma di intrattenimento e quindi negli ultimi anni si è un po’ persa quella componente non solo di lotta, come era negli anni ’80.. Gli stessi Beatles erano dei grandi intrattenitori ma veicolavano anche messaggi importanti con testi di lotta sociale; John Lennon addirittura c’è morto per le cose che ha scritto. Si raggiungevano livelli anche di coinvolgimento politico, sociale e storico.
Però la musica ha una valenza sociale molto forte, una valenza educativa molto forte, ha una valenza ispirativa, e relegarla a mera forma di intrattenimento è una tragedia.
La frase di Jeff Mills è estremamente calzante: la techno non nasce come genere solo da ballare, quindi da cui staccarsi, da cui prendere esclusivamente la parte “dionisiaca”; nasce come spunto di riflessione, come spunto di ispirazione, come accrescimento personale e culturale.
È questo il vero compito della musica ed è quello che deve essere sempre fatto, quello che cerco di fare anche nella mia di musica, portando a convergere artisti, generi, sonorità e influenze anche molto diverse tra loro per far scoprire sempre qualcosa di nuovo a chi ascolta.