Riflessioni sullo sfogo social di Sam Paganini, che ha accusato senza mezzi termini la superficialità artistica della scena odierna.
Chi sta tradendo la club culture? La domanda ci è sorta spontanea quando pochi giorni fa abbiamo visto il post di Sam Paganini che, criticando l’uso sempre più frequente di tracce eurodance da parte di alcuni top DJ del momento, ha voluto esprimere la propria indignazione rispetto alla superficialità artistica della scena odierna. Paragonando questo fenomeno ad un tradimento nei confronti dei grandi innovatori che nel tempo hanno costruito la club culture, Paganini ha voluto quindi fare un appello alla responsabilità morale che tutti gli artisti dovrebbero avere nel preservare ciò che gli è stato tramandato.
La questione è complessa ma Paganini non sbaglia. I DJ hanno da sempre una funzione culturale che va rispettata e che non può essere ignorata, soprattutto se si riflette sulle cifre che attualmente girano nell’industria. A nostro parere, quindi, l’invito all’analisi di coscienza è più che lecito.
Ora, lungi dal voler giustificare i DJ, che appunto hanno senza dubbio una responsabilità morale rispetto a ciò che decidono di proporre, crediamo comunque che essi siano da considerarsi più “complici” che unici colpevoli di certi trend e che la riflessione non debba focalizzarsi (solo) sul confronto tra chi c’era prima e chi c’è adesso, ma su cosa – e chi – abbia condizionato certi fenomeni.
Se è vero che gli artisti dovrebbero cercare di essere slegati da qualsiasi condizionamento, infatti, è anche vero che saranno sempre influenzati dal pubblico, dall’industria e più in generale dai cambiamenti sociali che li circondano. Da questo punto di vista quindi ci sembra opportuno che si rifletta non solo sulla responsabilità degli artisti ma anche su quella del contesto a cui si rivolgono e che, in maniera più o meno intensa, li condiziona.
Un nuovo pubblico
La prima considerazione che ci viene da fare è riconoscere che la techno oggi è a tutti gli effetti un genere mainstream. Se fino a qualche anno (decennio) fa era un genere musicale ascoltato da una nicchia di persone (oltretutto unite dalla condivisione di valori contro-culturali ed anticonformisti) oggi è un genere popolare, alla portata di tutti ed in gran parte assoggettato alle logiche dei più grandi business.
Questo non significa che, per fortuna, non ci sia una parte di scena che resiste, sperimenta, si informa e continua a portare avanti i valori originari del “movimento”, se vogliamo chiamarlo così, ma è indubbio che complessivamente l’esposizione e le dinamiche siano profondamente cambiate. Tra le conseguenze di questa “popolarizzazione” (per non usare il tanto temuto termine “commercializzazione”) c’è sicuramente il fatto che il pubblico oggi sia mediamente molto meno consapevole ed istruito (musicalmente parlando, si intende).
Osservando il fenomeno da un punto di vista globale e senza voler generalizzare, possiamo ammettere che la capacità di critica del pubblico, così come l’attenzione alla performance (sia tecnica che artistica), è decisamente diminuita nel tempo. Questo ha inevitabilmente portato ad un abbassamento delle aspettative medie con cui gli artisti devono confrontarsi e quindi meno ricerca, sperimentazione e la tentazione sempre più frequente di rifugiarsi in ciò che è facile, immediato e generalmente riconosciuto (e che risparmia anche lo sforzo interpretativo al pubblico stesso). Da qui il ritorno dei classici eurodance/pop criticato da Paganini.
Il ruolo dei social
Un’altra considerazione, strettamente legata alla precedente, fa riferimento alle nuove modalità di fruizione degli eventi. Oltre ad essere cambiati i luoghi ed i contesti, infatti, quello che è profondamente cambiato è il modo con cui l’evento viene vissuto. L’annosa questione dei telefoni e dei social è un fattore che non può non essere considerato in questa riflessione.
La necessità di avere tutto e subito, così come il bisogno di condividere qualcosa con il proprio network, hanno inevitabilmente influenzato l’evoluzione e le tendenze più recenti. Da una parte una velocità sempre più alta (su questo tema vi invitiamo ad ascoltare questa interessante riflessione di DVS1), dall’altra – di nuovo – i richiami sempre più frequenti al pop e a tutto ciò che è facilmente riconoscibile, che ovviamente strizzano l’occhio ai social.
Questo ragionamento vale anche in senso negativo, nella misura per cui i social possono diventare molto facilmente gogna mediatica e quindi disincentivare gli artisti a correre qualche rischio. Fare ricerca e sperimentazione significa infatti osare e rischiare anche di non piacere, ma se un piccolo errore o deviazione dalla norma può oggi diventare scandalo, è ovvio che sarà più facile rifugiarsi nel contenuto più banale e universalmente comprensibile (come si diceva prima).
Un sistema meritocratico falsato
Se alle riflessioni appena fatte aggiungiamo il fatto che si è andato falsando anche il sistema meritocratico dell’intera industria musicale, ecco che il cerchio si chiude. Questioni come l’estetica, le capacità comunicative o il seguito sui social sono sempre più importanti nelle considerazioni di agenzie e promoter e tutto ciò, volente o nolente, altera la scena.
Se l’artista con il video virale viene premiato a discapito di quello tecnicamente più bravo, ad esempio, è ovvio che il sistema prende una direzione pericolosa e che in generale la ricercatezza artistica non sia trattata più come una priorità. E se il sistema meritocratico va in una direzione artisticamente “irresponsabile” (per citare Paganini), poi diventa difficile appellarsi alla responsabilità di chi è stato scelto proprio da quel sistema.
Un dualismo che non aiuta
Per questi motivi, ci sembra che l’appello di Paganini alla morale degli artisti, per quanto condiviso, sia una condizione necessaria ma non sufficiente per rispondere alle criticità (giustamente) evidenziate. Innanzitutto perché la morale, purtroppo, sarà sempre più debole delle tendenze del mercato e ci sembra improbabile che un cambio di traiettoria possa arrivare da una sorta di “consapevolezza artistica ritrovata”.
In secondo luogo perchè limitarsi a “rimproverare” chi non sperimenta come hanno fatto le figure storiche di questo genere, per quanto lecito, rischia di sostenere un dualismo tra “passato” e “presente” che non aiuta in alcun modo. Al contrario, l’idea è che la deriva artistica evidenziata da Paganini sia figlia anche di questo dualismo, o meglio delle barriere comunicative che ne conseguono. Cioè dell’incapacità di trasmettere alle nuove generazioni – di artisti, di pubblico ma anche di addetti ai lavori – i valori che sottostanno la cultura underground e che sono alla base della musica techno.
Immaginare un ritorno al passato ora è impossibile e neanche auspicabile, perchè è giusto che le cose cambino e si evolvano. Si sarebbe forse potuto e dovuto agire prima, ma un passaggio di consegne “totale” sarebbe stato comunque un’utopia, soprattutto se si considerano gli interessi di mercato che sono subentrati nel tempo, falsando i sistemi valoriali di tutti gli attori in campo.
Si può fare di più
La sensazione è che comunque si potesse – ma soprattutto si possa – fare di più. Ripartendo dal basso, facendo informazione e cultura, si potrebbe cercare di cambiare il trend e (ri)creare una comunità artisticamente più consapevole e responsabile in tutte le sue componenti (artisti, pubblico e industria). Anche perché le nuove generazioni dimostrano di avere la sensibilità, il rispetto e l’interesse di fare propri certi valori, quindi forse il problema sta nella comunicazione e nella creazione delle condizioni più favorevoli per una trasmissione efficace.
Concludendo, ci verrebbe da dire che chi sta tradendo la club culture alla fine siamo un po’ tutti. Certamente gli artisti “irresponsabili” citati da Paganini, che oggi si piegano alle logiche di mercato fregandosene della loro funzione culturale. Ma insieme a loro anche chi alimenta certi trend con i propri comportamenti e aspettative (noi, pubblico più ampio); le agenzie e i promoter che supportano di conseguenza una meritocrazia falsata; e forse anche chi, nel tempo, non ha fatto abbastanza per trasmettere un sistema valoriale che avrebbe potuto – almeno parzialmente – contrastare la svalutazione artistica della scena.