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Jazz:Re:Found 2024 ha segnato un punto di svolta nella storia del festival. Per farci raccontare nel dettaglio i retroscena e le emozioni della XVI edizione abbiamo fatto due chiacchiere con il fondatore, Denis Longhi.

Vivere il Jazz:Re:Found è un’esperienza che trascende da tutto ciò che ci si possa aspettare da un festival. La magia che ha avvolto le strade di Cella Monte dal 28 agosto all’1 settembre si è fusa perfettamente con lo spirito di migliaia di appassionati. Presenti da tutta Europa hanno assistito a uno spettacolo che difficilmente riuscirebbero a trovare altrove in una sola line up.

Come ogni anno, anche l’edizione 2024 è stata un’esperienza a trecentosessanta gradi. Stage curati nel dettaglio, dal sound – sempre impeccabile in qualsiasi set o esibizione – agli allestimenti, passando per le scelte sceniche. Il Jazz:Re:Found si conferma il festival dove devi essere per concludere l’estate. La timetable è stata la dimostrazione di anni di esperienza, maturati con la consapevolezza di dare al pubblico uno spettacolo costruito per raccontare una storia.

Performance del Jazz:Re:Found 2024

Le colline del Monferrato hanno reso, come sempre, Jazz:Re:Found 2024 una sorta di intreccio fiabesco. Viti verdissime aggrappate a una terra che parla di tradizioni, con uno sguardo visionario, irrorate, per cinque giorni, dalla musica. I vicoli di Cella Monte sono il simbolo del festival. È affascinante vedere come gli abitanti del posto, spesso anziani, che probabilmente hanno trascorso buona parte della loro vita tra le stradine acciottolate di Cella Monte, si integrino perfettamente con la visione JZ:RF. Il territorio, infatti, è parte dominante dell’esperienza Jazz:Re:Found.

Noi di Parkett abbiamo avuto il piacere di partecipare al festival come ospiti. Siamo rimasti, ancora una volta, incantati dal potere di questo evento. Rendere le persone semplicemente felici, traghettandole verso una nuova era musicale.

A rendere possibile questa rivoluzione è stato anche un sabato orientato verso un tipo di sound inaspettato. Averlo vissuto ci ha dato modo di sentirci parte di qualcosa con una direzione precisa, che voleva lanciare un messaggio chiaro. Parte della timetable del penultimo giorno è ruotata intorno alla black musi. Nonostante anche gli altri giorni abbiano influito in modo determinante a rendere quest’edizione un punto di svolta nella storia del festival, il sabato di quest’anno crediamo sia stato un disegno pensato per stupire e comunicare un nuovo inizio. La scelta di portare la black music il giorno in cui – solitamente – si pensa a una line up più “dance”, è sinonimo di una maturità artistica. Non solo del festival, ma anche di un pubblico che può definirsi finalmente pronto ad accogliere artisti che rendono la line up caleidoscopica.

È facile pensare al team del Jazz:Re:Found come una squadra di artigiani e grandi appassionati professionisti. Creatori di cultura musicale, con un tocco delicato e un lavoro costante, negli anni hanno plasmato una corrente che in Italia sarebbe nata a fatica. Cercare di raccontare con un report l’energia che ci si è cucita addosso dopo il Jazz:Re:Found 2024 sarebbe un po’ riduttivo, quasi impossibile. Così abbiamo pensato di farci raccontare da Denis Longhi, fondatore e mente creativa del festival. Un’intervista su quello che è stata per lui questa edizione, di quello che sarà la prossima (i biglietti del Jazz:Re:Found 2025 sono già disponibili sul sito ufficiale) e del percorso che li ha portati fino a qui oggi.

Denis, guardando indietro a questa edizione di Jazz:Re:Found 2024, quali sono le emozioni che senti ancora vive dentro di te? C’è un momento specifico o un’immagine che ti ha toccato più degli altri e che continua a tornarti in mente? Se tiva raccontaci quale emozione associ a quell’istante.

I momenti apicali di questa edizione sono tanti, perché inevitabilmente, quando si ha un certo tipo di percezione non è mai personale. È il risultato delle percezioni collettive. È stata senza dubbio l’edizione più importante e meglio riuscita della storia di Jazz:Re:Found. La dimostrazione di ciò credo sia stato l’evento conclusivo degli Ezra Collective. Una band che fa jazz, che non utilizza elettronica, vocoder, programmazione eccetera: sembrava suonassero i Chemical Brothers, nella proporzione della nostra comunità. Una band con un linguaggio “vintage” – comunque fortissimi perché sono riusciti a rinnovarlo e a renderlo pop – e strumentale, che aveva davanti a sé duemilacinquecento persone che cantavano i temi dei fiati.

Soprattutto è stato abbastanza incredibile vedere dei ragazzi giovani commuoversi veramente, scoppiando in lacrime dall’emozione e dal pathos del momento. Quello ha sancito la nascita di una wave, di un movimento nuovo. Non è più una piccola comunità di nerd della musica. È una nuova vera scena, ben distribuita ed eterogenea, dai 20 ai 50 anni. Una scena che ha trovato finalmente la sua espressione e la sua terra promessa in cui stare bene. La domenica è stata la conclusione di un percorso di cinque giorni che non solo ha segnato la chiusura della sedicesima edizione di JZ:RF, ma l’inizio di una nuova fenomenologia italiana.

Ogni festival è un viaggio, sia per il pubblico che per chi lo organizza. Qual era la tua visione per questa edizione, e quanto è stata vicina o diversa rispetto a ciò che si è realizzato?

Tutti gli anni, rispetto alle mie aspettative, il Festival atterra un po’ più avanti. Ogni anno sono piacevolmente stupito dell’upgrade sia dal punto di vista della produzione che del pubblico. Quest’anno ho la sensazione che sia successo qualcosa di molto più grande e importante rispetto alle mie aspettative. Credo che sia una commistione di elementi. Un team che ormai lavora, per la prima volta nella storia di JZ:RF, insieme da 5 anni e come professionisti dedicati quasi solo integralmente ai nostri progetti. E si vede. Si vede la crescita, la maturità professionale, la dedizione, ma soprattutto il senso di partecipazione verso il Festival.

Le persone che lavorano quotidianamente sono 6, altre 7 lavorano settimanalmente, mentre il personale impiegato in totale quest’anno – senza contare fornitori esterni – sono 232 persone. Inizia a essere un Festival importante che ha quasi 200.000 euro di spese di personale. Se non utilizzi bene queste risorse economiche le sprechi, al contrario inizi a dare un valore che solo i grandi Festival possono permettersi. Jazz:Re:Found è quindi un piccolo grande Festival.

Rispetto alla mia visione, quest’anno è tutto molto più grande e lontano dalle aspettative. Immagino che non c’entri solo il team, ma sia anche il pubblico, che è cresciuto in consapevolezza. Soprattutto JZ:RF inizia a essere raggiunto da un pubblico che arriva anche dall’estero, circa seicento persone quest’anno. Quindi c’è un livello di impegno, consapevolezza e volontà di partecipazione diversa. Non c’è il pubblico limitrofo che arriva in modo estemporaneo solo per passare una serata, ci sono persone che iniziano a fare migliaia di chilometri per un’esperienza che reputano importante per la loro qualità di vita.

Ci puoi raccontare qualche episodio dietro le quinte che ti ha fatto sorridere, emozionare o riflettere? Magari qualcosa che noi, al di qua degli stage, non vedremo mai, ma che ha reso questa edizione indimenticabile per te

Dietro le quinte capitano cose inaspettate ed esilaranti, a volte anche drammatiche. In questa edizione, mi verrebbe da dire per la prima volta, non ci sono mai stati momenti di tensione. Forse solo con Glass Beams e la loro eccessiva tutela di questa sorta di “segreto di Pulcinella”, per tenere segreta anche in backstage la loro identità nascosta, abbiamo avuto troppe sovrastrutture.

Poi ci sono sempre i soliti episodi di personaggi abbastanza incredibili tra gli artisti, che combinano cose inenarrabili. Anche il nostro team che dopo una certa ora inizia ad assaporare la festa e a portarla avanti nel backstage anziché sotto cassa. Forse la cosa veramente notevole quest’anno è che il dietro le quinte sembrava oggettivamente il dietro le quinte di un festival importante. Momenti divertenti e singolari, ma un livello di controllo e di gestione sempre ottimo, che ha impedito che qualsiasi situazione diventasse grottesca o ingestibile. La cosa che mi soddisfa di più è aver visto una gestione di diversi backstage, con personale diverso, ma tutta ugualmente efficace. 

Dj con vinile in bocca durante un dj set al Jazz:Re:Found

C’è stato un artista o un momento che ti ha fatto capire di essere riuscito a trasmettere esattamente quello che volevi con questa edizione?

Il sabato di quest’anno – che è la giornata con più affluenza e anche, chiaramente, con più necessità da parte del pubblico di divertirsi – è stato abbastanza apicale rispetto alle altre edizioni. La scelta è stata proprio quella di portare un linguaggio se vogliamo “difficile” rispetto al sabato che è sempre stato più danzereccio, elettronico, pop rispetto al codice di JZ:RF.

Quest’anno la scelta è stata quella di rappresentare la black music nel suo senso più stretto e autentico con tre act non semplici. Mulatu Astatke, che è un grandissimo artista ma suona ethio-jazz, quindi musica con poliritmie e armonie non così consuete. È un ultraottantenne che non ha quella performatività catchy sul palco da tenere il pubblico incollato con il personaggio. L’ha fatto grazie alla musica e all’atmosfera che hanno creato. La continuazione di questo racconto dalle origini del suono africano è passato poi per Orii, che è una band assolutamente sconosciuta o appena conosciuta a Londra, scelta per il peak time del sabato tra le 22 e mezzanotte.

Il briefing era quello di coniugare il suono dell’ethio-jazz ai mondi space-jazz più visionari e psichedelici di Sun Ra, fino ad arrivare alla contemporaneità della dance black, anche con la cassa dritta, passando da Fela Kuti e spostandosi verso l’house music. Essendo un collettivo molto giovane, che non ha ancora la necessità di imporre la propria autorialità al 101%, sono stati molto disponibili. Hanno interpretato questo racconto musicale in modo esemplare, tenendo incollate quasi 3.000 persone che difficilmente avevano la percezione di chi fosse la band che suonava.

La chiusura del sabato sul main stage con Grove, progetto davvero poco noto fuori dai confini UK, ha portato un messaggio diverso rispetto al classico sabato notte. Sia dal punto di vista estetico, afferente al mondo LGBTQ+ e gender fluid, ma anche dal punto di vista della musica. Un suono molto afrofuturista, decisamente pop ma in versione underground, con una forza – direi quasi una violenza – davvero potente, rimanendo comunque nei canoni di Jazz:Re:Found. Direi che quel filotto è, forse, la cosa meglio riuscita in queste sedici edizioni. È anche la cosa migliore dal punto di vista costi-benefici, perché nessuno di loro era un artista così notiziabile.

Organizzare un festival come Jazz:Re:Found è sicuramente un lavoro di squadra. Qual è stato il momento in cui hai sentito che il tuo team ha fatto la differenza quest’anno? Come hai vissuto la connessione tra di voi?

Quest’anno è il primo dopo l’inizio di questo progetto in cui, già dallo scorso ottobre, ho potuto contare quotidianamente su 5/6 figure in modo fisso. Sono stati messi a budget finalmente una serie di contratti di tipo continuativo, con persone che nella vita lavorano per Jazz:Re:Found. Dalla progettazione del Festival un anno fa ho avuto la sensazione che ci fosse qualcosa di diverso, integrato, superiore. Tanti immagineranno che un festival così ben riuscito e con questo livello di qualità ha chissà quante figure a tempo pieno. In realtà fino a due anni fa eravamo io e Alessandra Vigna, mentre tutti gli altri erano collaboratori occasionali, in alcuni casi anche con continuità, ma sicuramente non in un progetto organico e quotidiano.
La vera differenza quest’anno è stata questa: avere un ufficio che può darsi delle task da un giorno all’altro. Soprattutto, durante il Festival, ho percepito la differenza nel momento in cui nei primi otto, nove giorni di allestimento io ero a Vercelli a lavorare sulla parte di comunicazione, mentre tutta la parte di montaggio e produzione è stata portata avanti dai miei collaboratori. Io – che ho anche questa piccola “mania di controllo” sui posizionamenti dei palchi, sugli allestimenti, le luci – è il primo anno in cui ho potuto delegare. Era tutto già abbastanza razionalizzato, partendo dagli anni scorsi. Ho finalmente avuto la percezione che il disegno di JZ:RF non fosse solo nelle mie mani, ma nelle mani di un team solido e allargato.

Dopo tanti anni c’è un filo emotivo che lega ogni edizione di Jazz:Re:Found, una sorta di storia che si evolve. Dove collocheresti questa edizione nella narrativa del festival?

La storia di JZ:RF è molto lineare e organica. È stato creato un punto informativo all’interno del Festival in cui venivano esposte le lavorazioni in legno su cui erano stampati i poster di tutte le edizioni. Ho visto parecchie persone rimanere sorprese vedendo nomi importanti nelle edizioni iniziali. Sorprese soprattutto di non aver frequentato il Festival in quel periodo e vedere proposte artistiche molto interessanti e d’avanguardia, ma posizionate in “tempi non sospetti”.

Il filo emotivo che lega Jazz:Re:Found è tanto importante quanto banale, ovvero la passione. Non c’è stata un’edizione che ha dovuto cedere al compromesso o fare ragionamenti a tavolino per decidere quali artisti incassasero più biglietti. Ovviamente non vengono fatte scelte scellerate, però non c’è mai stato un ragionamento preventivo per cui viene scelto l’artista per riempire dei blocchi di biglietteria. Questo concede molta libertà dal punto di vista della direzione artistica e garantisce coerenza e solidità dal punto di vista del linguaggio artistico.

Uno dei valori che lega questo Festival è la presenza di Alessandra Vigna, la persona che ha iniziato questa missione con me tanti anni fa e che ora non c’è più. Questa è stata la prima edizione senza di lei. Nel 2023 Alessandra è mancata pochi giorni prima del Festival, questa edizione è stata anche un grande cerimoniale per lei. Diciamo che, se con 15 edizioni si è chiuso un piccolo ciclo, la sedicesima è la prima della grande maturità di JZ:RF. Con Alessandra presente in un’altra veste e con un team che segue il Festival da tanti anni, consolidato e strutturato, che ha preso con me le redini del gioco.

Il festival è un’occasione di incontro non solo musicale, ma anche umano. C’è stato qualche incontro inaspettato quest’anno, magari con un artista o un membro del pubblico che ti ha lasciato un segno?

Io cerco sempre di stare distante dagli artisti, perché non amo il ruolo del promoter o direttore artistico che saluta gli artisti, si presenta in backstage dicendo: “ti sto ospitando io”. In più diventerebbe complicato gestire le preferenze con così tanti artisti. L’ho fatto con Roy Ayers e con Ivan Conti di Azymuth perché sono dei miei idoli, delle icone personali. Però quest’anno l’unico artista con cui ho passato un po’ di tempo è stato Marcos Valle, anche lui uno dei riferimenti della mia estetica musicale. Un po’ anche con Goldie, che avevo avuto il piacere di conoscere già anni fa ed è sempre una persona squisita. Ci sono poi rapporti con Gilles Peterson, con Mr. Scruff, con Lefto Early Bird, Handson Family. Ormai li ritengo un po’ parte della famiglia e li incontro in modo ordinario durante il Festival passando anche dei momenti insieme a loro.

Tra il pubblico, la cosa che mi ha sorpreso quest’anno è stata che, nonostante ci siano ormai numeri importanti – tra le 2.500 e le 3.000 persone al giorno – ho sempre la percezione che la gente mi “riconosca” e si fermi a fare un saluto o a ringraziare me e il team. È una cosa che da una parte, per il mio carattere, può anche essere un po’ disturbante venire fermati da 300/400 persone durante la giornata. Dall’altra, fa un enorme piacere perché la sensazione è che più che un pubblico ci sia una comunità molto consapevole, che conosce anche chi sta dietro il Festival e ne comprende il giusto valore.

I luoghi scelti per il festival, ormai lo sappiamo, hanno un’anima che si intreccia con quella degli eventi. Come hai percepito l’energia degli spazi quest’anno? Hanno aggiunto qualcosa di speciale all’esperienza complessiva?

Quest’anno, a differenza degli altri anni, abbiamo mantenuto gli spazi molto simili all’edizione precedente e l’idea è di garantire lo stesso assetto l’anno prossimo. È stato fatto un lavoro di ottimizzazione degli allestimenti e dei servizi, ma mantenendo la geografia e la struttura del design del Festival praticamente identiche. Questo permette al pubblico di avere riferimenti certi. Vedere i servizi migliorare nelle stesse aree, percepire il lavoro che viene fatto a livello di studio del design, della palette, dell’inserimento di elementi grafici all’interno del villaggio di Cella Monte. Un luogo che ha una gamma di colori molto definita – tutelata dai piani paesaggistici UNESCO – in cui cerchiamo di fare sempre degli interventi che siano di contrasto – ma in maniera puntuale – o che vadano a valorizzare in maniera molto semplice le caratteristiche del paese.

Sicuramente il meteo, la distribuzione dei flussi e degli orari hanno generato una fruizione del Festival esemplare. Rispetto agli altri anni –  il Festival è sempre stato famoso perché c’è, oltre alla musica, un’energia speciale – ho sentito parlare e ho percepito questo ruolo dell’empatia tra le persone.

Il risultato è stata la generazione di qualcosa che non è tangibile o descrivibile, ma che va vissuto e assaporato come vere e proprie esperienze a trecentosessanta gradi. Non possono competere a livello economico con artisti giganti, ma hanno dalla loro qualcosa che è un po’ irripetibile in altri contesti. Soprattutto nelle situazioni indoor invernali, che non permettono quel tipo di espressione vitale, di benessere e di contatto con gli elementi della natura e del territorio. È una cosa che non so bene come riusciamo a gestire. Ma so che, sempre nel mio disegno mentale, cerco di immaginare un tipo di fruizione che arriva a generare quell’elemento di magia che si genera per le strade di Cella Monte.

Guardando al futuro, cosa speri di portare nella prossima edizione di Jazz:Re:Found? C’è qualcosa che questa edizione ti ha insegnato e che vorresti applicare in futuro?

Questa edizione mi ha insegnato che una sorta di ritorno alle origini, dal punto di vista delle scelte stilistiche, ha premiato. L’inizio di Jazz:Re:Found fu apprezzato da un pubblico ridotto. Le 800/1000 persone che frequentavano il Festival, gli addetti ai lavori un po’ “pirati”, fuori dai contesti pop o trendy della musica. La nostra visione è sempre stata andare avanti in quella direzione, nonostante fosse molto complicato riuscire a imporre un genere musicale che trovava gradimento e spazio a Londra, Manchester o Bristol e su pubblici analoghi in proporzione. Un grosso lavoro è stato fatto da Gilles Peterson e da altri attori a livello editoriale.

Anche la nascita di una nuova scena musicale di giovani ha un po’ ribaltato il concetto di fruizione di questa musica. Portandola da loro sul dancefloor, nel mondo della moda e con un’estetica più vicina a quella della club culture anni ‘90, il nostro linguaggio di Jazz:Re:Found – ovvero ritrovato e rifondato, che ritorna alle origini della protesta e della danza, non il jazz “leccato” per gli intellettuali seduti in teatro – è sicuramente arrivato ed è diventato un fenomeno percepibile non solo dagli addetti ai lavori, ma nel mondo anche generalista.

L’obiettivo è quello di “approfittare” del grosso lavoro fatto in questi anni e di beneficiare in questo momento di un’attenzione anche un po’ “dopata” dall’entusiasmo. Non ci deprimeremo tra due o tre anni quando questa wave avrà la sua naturale onda di discesa. Continueremo a essere coerenti con questo tipo di linguaggio, che è comunque sopra e al di fuori delle mode. Ci saranno dei cicli in cui viene intercettata maggiormente e cicli in cui torna a essere musica più da “nerd”. Il nostro obiettivo non è quello di renderlo un fenomeno di lifestyle, ma migliorare la fruibilità e l’esperienza delle persone che ne hanno assunto consapevolezza.

Sia dal punto di vista artistico che strategico, il lavoro sarà quello di andare sempre più in verticale e in modo approfondito sul nostro linguaggio originario. Esso riguarda la devozione e la gratitudine al mondo afrocentrico e afroamericano che ha generato il jazz come musica, ma soprattutto dei movimenti sociali e politici molto ben definiti e con valori che, nonostante vadano oltre la musica, la usano per sottolinearli.

Se potessi lasciare un messaggio non solo al pubblico, ma anche al “te” che ha iniziato questa avventura anni fa, cosa diresti? Cosa significa oggi Jazz:Re:Found rispetto al sogno iniziale?

Nel 2017, alla decima edizione, Raffaele Costantino come “sottotitolo” mi suggeriva “la materializzazione della visione”, che effettivamente dopo dieci anni sembrava essersi concretizzata. Dopo dieci anni avevamo portato in Italia banalmente delle reference, delle ispirazioni che avevamo assorbito viaggiando e inseguendo musiche “altre”, che in Italia non hanno mai avuto successo. Forse Raffaele aveva ragione, è stato materializzato quel percorso, dieci anni sono tanti, ma è stato anche il tempo necessario per riuscire a raggiungere quell’obiettivo.

Oggi forse, più che la materializzazione della visione, direi che c’è proprio la conclamazione della visione, il riconoscimento quasi come accade con i generi musicali. All’inizio il drum ‘n’ bass non aveva il suo scaffale, era dentro l’elettronica. Quando poi il genere ha iniziato a prendere forma a livello di scena e di comunità, è nata la “casella” del drum ‘n’ bass e, come in tutte le forme contemporanee di musica, è nel negozio di dischi che prende forma il genere e quindi la scena che ne fa parte.

Quello che posso dire a me e al nostro pubblico è che forse, nel 2024, è nato il genere Jazz:Re:Found, o meglio, la gente ha capito cosa significhi JZ:RF. Non è né solo jazz – una polemica che c’è stata fino a poco tempo fa -, né solo suoni che “pestano” abbastanza, né  musica troppo eclettica per il dancefloor. Il significato di Jazz:Re:Found è l’insieme di tutte queste cose, che è, e che non è.

Rendo sempre omaggio a Gilles Peterson, che è uno dei pochi che è riuscito a raccontare tutto questo in modo coerente. Lui usa questa espressione: “searching the perfect beat”, per definire la sua musica, ma forse è addirittura riduttivo perché non parliamo di parte ritmica. Parliamo tanto di parte armonica, di stile e di società. C’è una controcultura che finalmente ha trovato una piattaforma in cui ritrovarsi, in cui festeggiare insieme una volta l’anno trovando un ambiente in cui c’è quel tipo di espressione collettiva. E credo che sia diventata un po’ un’esperienza che mette insieme tutte le persone che, individualmente o in piccoli gruppi, durante l’anno approfondiscono queste tematiche. Viaggiano, sperimentano, ascoltano e hanno finalmente un luogo comunitario in cui darsi un appuntamento annuale dove celebrare e celebrarsi all’interno di questa scena.