Chi sono veramente i Daft Punk? O meglio ancora, chi sono stati e cosa hanno rappresentato i Daft Punk nell’immaginario di tre generazioni?
Certo, dietro questo logo del più iconico duo della musica dance elettronica si celano nomi e cognomi, ma le loro facce sono sconosciute ai più.
In molti conoscono il vero volto del french duo per eccellenza ma la scelta di non essersi mai tolti il casco evoca in un certo senso l’aurea della leggenda, risveglia l’immortalità del mito.
La maschera, infatti, dai poemi omerici fino all’epopea dei supereroi dei comics e dei loro universi espansi sottende un elemento importante: l’identità segreta degli eroi.
Riavvolgiamo il nastro, anzi riportiamo la puntina all’inizio del disco, dove il pulviscolo anticipa di pochi secondi l’inizio della traccia, per sgombrare subito il campo da facili sensazionalismi: i Daft Punk, secondo chi scrive, non rappresentano il progetto più importante della storia della musica elettronica dopo i Kraftwerk.
Permettiamoci, in coerenza con il nostro percorso di osservatori critici della musica elettronica, di non cedere alle suggestioni emozionali del momento e di evitare di mettere insieme nomi e storie che tra loro hanno pochi punti di congiunzione, se non quelli di captare likes e followers senza scalfire la patina dei luoghi comuni, in primis quello sulla fascinazione per la robotica.
I Kraftwerk e i Daft Punk sono stati protagonisti delle loro transizioni in modo autorevole e autonomo e le loro storie si intersecano sull’asse del tempo come due ellissi: i primi hanno visto nell’ibridazione uomo-macchina una nuova speranza per l’umanità che superasse la cortina di ferro, i secondi hanno avuto la capacità di trascendere il concetto stesso di tempo, ponendo al centro del loro pensiero un nuovo umanesimo analogico da contrapporsi al pensiero unico digitale che già dalla fine degli anni novanta permeava la società del web.
Dalla prospettiva utopica dell’uomo-macchina dei Kraftwerk alla robotica dall’anima umana dei Daft Punk c’è un tracciato di musica elettronica lungo oltre vent’anni.
Tuttavia, nell’economia generale della discussione, scorrendo le pagine dei social tra un encomio in forma di meme e un’elegia compressa in un tweet, sembra assurdo dover accertarsi dell’evidenza che i Daft Punk non siano morti.
Fortunatamente i Daft Punk sono più vivi di tanti altri e hanno ben ponderato questa loro trionfale uscita di scena con la precisione tipica di un loro bpm, tale da riempire con una sola notizia potente quanto un beat, quel silenzio assordante in cui da un anno ormai è rinchiusa la musica dance elettronica.
Quanto porterà nelle tasche dei popolari unmasked producer transalpini questo improvviso scioglimento del loro progetto dopo 28 anni sulla cresta dell’onda non è dato saperlo.
Di sicuro, la major che detiene i diritti dei loro album non si è fatta attendere più di ventiquattrore dalla notizia del loro scioglimento per annunciare la ristampa dei loro due primi dischi in vinile, confidando in un insperato incremento, dato il magro periodo per i discografici, del proprio fatturato grazie all’hype che ruota intorno al fenomeno Daft Punk.
Non c’è bisogno di celebrare soltanto oggi i Daft Punk perché la loro visione musicale continuerà a rappresentare una supernova musicale capace di illuminare la strada a lungo.
Una stella, anzi due, che per trovare il loro posto nel firmamento sono partiti da un sogno, come ha provato a raccontare con efficace naturalezza nel suo pluripremiato “Eden” la regista danese Mia Hansen-Love, ispirandosi alla storia vera di due ragazzi come tanti con la passione del djing agli esordi di un percorso che lascerà un segno indelebile nella storia della dance elettronica.
Chi avrebbe mai pensato che trent’anni dopo il loro sound sarebbe stato identificato con quello di un’intera nazione? In pochi probabilmente ricordano il medley del loro repertorio interpretato dalla banda di Stato francese davanti ad uno sbigottito Donald Trump e ad un divertito Macron per la tradizionale parata in occasione della Festa Nazionale del 14 luglio 2017; uno dei momenti meno ricordati in questi giorni ma tra i più significativi della loro carriera.
I Daft Punk sono Thomas Bangalter e Guy-Manoel de Homem-Christo, due ragazzi di Parigi che alla fine degli anni ’80 erano semplici compagni di scuola e grandi appassionati di musica; nessuno dei due immaginava che il loro stile originalissimo e il loro immaginario musicale e visivo li avrebbe fatti diventare i DJ/produttori più famosi al mondo.
Thomas era figlio d’arte: suo padre, il cantante francese Daniel Vangarde, gli insegnò a suonare il pianoforte già all’età di 6 anni.
Guy invece cominciò a suonare la chitarra da bambino e iniziò a scrivere canzoni all’età di 14 anni.
Nel 1992 Thomas e Guy diedero vita alla loro prima creatura musicale, i Darlin’, una teenage punk-rock band che si ispirava ad una canzone omonima dei Beach Boys.
Grazie ai consigli del padre di Thomas, i due si appassionano alla musica degli anni ’60 e ’70 e idealizzano la figura iconica del DJ, che, proprio a partire dalla fine dei seventies aveva rivoluzionato la scena musicale.
In un articolo del magazine inglese Melody Maker vengono etichettati semplicemente come “a bunch of daft punk” cioè “un branco di stupidi teppisti”.
Molto presto però Thomas e Guy si accorsero come il punk non fosse il loro sound e si lanciano così nell’avventura della musica elettronica, genere che i best guys parigini reinventeranno più e più volte, sempre in anticipo e costantemente in controtendenza rispetto alle mode.
Appena un anno dopo, infatti, esce con il numero 14 di catalogo il loro primo singolo intitolato “The New Wave” per la label scozzese Soma Quality Recordings.
Ma il successo arriva nel 1995 con il singolo “Da Funk” accompagnato dal video diretto dal regista Spike Jonze.
La traccia viene scelta come singolo per lanciare il primo album dei Daft Punk, dal titolo “Homework”, pubblicato soltanto due anni dopo ottenendo un successo inatteso e unanimi consensi, al punto da essere considerato ancora oggi dalla critica uno dei più influenti dance album mai realizzati, grazie ad un mix inedito e innovativo di di techno, acid house ed electro.
Racconta Thomas che l’album venne realizzato a quattro mani interamente nella sua stanza, tanto che fu costretto a spostare il letto e gli altri mobili per far spazio ai synth e ai campionatori.
In realtà il titolo venne stato scelto dai Daft Punk anche come “manifesto” per un nuovo modo di fare musica grazie all’utilizzo dei computer e delle macchine; col senno di poi, possiamo confermare che è proprio con Homework che viene codificata e distinta rispetto al DJ la figura del producer, inteso come artista a 360° capace di comporre e performare musica sia con gli strumenti analogici che con quelli digitali.
Saltiamo al 1997, anno in cui il successo mondiale dei Daft Punk viene decretato da un brano che definire iconico sarebbe riduttivo, basta il nome: “Around The World”.
Il video che accompagna la traccia diretto dal regista Michael Gondry, oltre a confermare l’attitudine cinematografica del duo, contiene gli elementi essenziali dello stile dei Daft Punk: in primis la passione per la space disco e l’italo disco degli anni ’70: la clip, infatti, vede come protagonisti alcuni ballerini in tenuta robotica che danzano meccanicamente su una piattaforma circolare a forma di vinile.
In realtà ogni elemento del video rappresenta uno strumento diverso: i robot sono la parte vocale del brano; gli atleti simboleggiano il basso, le disco-girls impersonano le keyboard, agli scheletri viene dato il ruolo delle chitarre mentre le mummie suonano come delle drum machine.
I movimenti sono dichiaratamente un omaggio alle coreografie degli spettacoli televisivi degli anni ’70, che da sempre sono nell’immaginario creativo dei Daft Punk per la loro unione di vintage e modernità.
Da “Around The World” in poi lo stile dei Daft Punk diventerà sempre più definito e riconoscibile, grazie all’utilizzo costante dell’effetto “filtro” delle frequenze, al ricorso a stab vocali e al sampling di vecchi dischi funk spesso rari o introvabili riemersi dal loro vasto armamentario vintage di discografie degli anni ’70 e ’80.
Insieme alla space-disco è proprio il funk, infatti, l’altro ingrediente dello stile della band francese, una particolare miscela di funk ed elettronica nata nei primi anni ’80 e chiamata P-Funk dal nome della band capitanata dal “sacerdote” di questo stile, George Clinton, ovvero il fondatore dei Parliament.
A riguardo, il celebre critico musicale inglese Simon Reynolds, autore tra l’altro del saggio “Retromania” ha affermato in una recensione sul New York Times che i Daft Punk riuscirono in un piccolo miracolo: codificare un sound elettronico riconoscibile ma che non aveva età, né possedeva coordinate.
Un suono capace di unire presente e passato come in una riproduzione casuale su iTunes o una playlist di video su YouTube.
Soprattutto nei loro primi album, l’utilizzo innovativo della tecnica del campionamento ha fatto letteralmente impazzire i nerd del sampling alla ricerca di frammenti più o meno autorizzati tra i brani della band.
Tra questi, ad esempio, “One More Time”, primo singolo estratto dal secondo album in studio dei Daft Punk intitolato “Discovery”, il quale detiene anche il primato di essere il primo dei loro brani a scalare la Top 40 statunitense.
La rivista Rolling Stone ha inserito One More Time al numero 307 nell’elenco delle 500 migliori canzoni di sempre.
Due elementi sono centrali nell’estetica di Discovery: l’utilizzo dell’autotune e delle voci compresse e il ricorso copioso alla tecnica del sampling per comporre quasi tutte le tracce dell’album.
Spianata la strada del successo, a metà del loro percorso artistico ma sempre al riparo dalle tendenze del momento, i Daft Punk producono l’album forse meno amato dai fan della loro discografia ma non per questo meno significativo: nel 2005, infatti, usciva “Human After All”, disco grazie al quale la nascente scena electro clash acquisì il lascia passare per diventare mainstream, grazie a label orientate come la Ed Banger in Francia che diede il battesimo ai Justice e la newyorkese DFA Records che ruotava intorno a James Murphy e ai suoi Lcd Soundsystem, codificando un nuovo stile grazie ad una canzone dall’impatto irreversibile per un’intera generazione di DJ e producer: l’iconica “Technologic”.
Uno iato di altri 8 lunghi anni separa i Daft Punk dal loro pubblico fino all’uscita di “Random Access Memories”, l’ultimo album del combo francese, preceduto dal singolo “Get Lucky” con la voce di Pharrell Williams; brano, quest’ultimo, che detiene ancora il record quale canzone più ascoltata di sempre sulle piattaforme di streaming avendo raggiunto quasi 545 milioni di visualizzazioni su YouTube e i 104 milioni di ascolti su Spotify.
Il disco che rappresenta il risultato di un lungo e dispendioso sforzo produttivo vede la sua gestazione tra Parigi, Los Angeles e New York, dove il duo decide di registrare “Get Lucky” nella main room dei leggendari Electric Ladyland Studios fondati da Jimi Hendrix nel 1970.
In realtà il sound di Random Access Memories viene originariamente concepito come sbocco naturale delle soluzioni adottate dai Daft Funk per il loro celebre tour intrapreso nel 2007, quello noto per aver dato origine al live album “Alive” dello stesso anno.
Proprio in considerazione del principio affermato da Tomas e Guy secondo il quale “To know the future you must first know the past”, in R.A.M. troviamo la space disco, il P-Funk di George Clinton, gli strumenti tradizionali, i sintetizzatori, l’onnipresente fascinazione per la robotica, l’uso dei vocoder, l’introduzione negli arrangiamenti di partiture sinfoniche sulla falsariga dell’esperienza maturata per la colonna sonora del film Tron Legacy del 2010.
Un sound quello di R.A.M. che rappresenta un nuovo punto di svolta nell’estetica senza tempo dell’ormai pop duo parigino, con un dichiarato omaggio al French Touch degli anni ’90, del quale i Daft Punk sono stati ispiratori e protagonisti.
Sarebbe inutile ricordare l’unanime riscontro di critica e di pubblico che Random Access Memory, vincitore anche di diversi Grammy, continua a riscuotere ancora oggi: merito anche delle prestigiose collaborazioni presenti nel disco, tra le quali basti ricordare le presenze di Pharrell Williams, Giorgio Moroder, Panda Bear voce degli Animal Collective, Julian Casablancas degli Strokes e non ultimo Nile Rodgers, frontman degli Chic, vero ispiratore del sound di R.A.M.
Da quel momento in poi, tranne rare e sporadiche apparizioni come le collaborazioni per l’album “Girl” di Pharrell Williams ed il singolo “Computerized” di Jay Z nel 2014 e il disco “Starboy” firmato da The Weekend nel 2016, la presenza sulla scena dei Daft Punk è divenuta sempre più rara e altalenante, mentre nella vasta platea dei fan di quella che ormai era diventato a tutti gli effetti un pop duo montava l’attesa per un loro ritorno, fino all’ultimo, esiziale annuncio dell’altro ieri con un video di 8 minuti postato su YouTube: Epilogue.
Proprio nel momento in cui la loro fanbase era pronta ad acclamare il loro ritorno ed il mondo del pop sarebbe stato pronto ad accogliere qualsiasi nuova imprevedibile sterzata del loro stile giustificandola come anticipatrice di nuove tendenze, la notizia dello scioglimento improvviso dei Daft Punk ha fotografato come in un’istantanea condivisa e memoria collettiva trent’anni di musica elettronica che si chiudono alle nostre spalle.
Thomas e Guy, i Daft Punk: da miti a eroi, pur rimanendo umani (dopo tutto); anche nella scelta del momento giusto per uscire di scena.
Salve di post emozionali, fiumi di inchiostro, lodi sperticate da parte della stampa generalista insieme ad elogi dal tono funereo si sono susseguiti sul web nelle ore successive all’annuncio della loro separazione artistica.
Un’esasperazione a tratti irrazionale accompagnata da una confusa rincorsa da parte dei media nel rivendicare l’appartenenza dell’esperienza dei Daft Punk ad un preciso genere o ad una determinata scena musicale; un’appropriazione indebita che, oltre a tradire il percorso compiuto dai due in senso diametralmente opposto, ha assunto i caratteri di una reazione scomposta rispetto a quella che altro non è che la naturale conclusione di un progetto di formidabile successo e che resterà impresso nella storia della musica, non solo elettronica, proprio perché irripetibile.
Da oggi in poi i privati cittadini Thomas Bangalter e Guy-Manuel de Homem-Christo potranno vivere pienamente, come hanno sempre desiderato, il loro essere umani, senza dover neanche più “sopportare” il peso dei loro caschi che hanno preferito distruggere, affidando alla nostra responsabilità e memoria condivisa l’onere di custodirli, insieme alla loro musica.
So long legends….Give Life Back To Music.
– To Be Continued –