Dardust, in occasione dell’uscita del suo ultimo lavoro “Duality” ci regala un viaggio dentro il suo personale ed intrigante punto di vista musicale.
Dardust è tante cose. Dario Faini è un artista, uno che l’arte la crea e la racconta con diversi linguaggi, ma prima di tutto, con il verbo universale della musica. C’è chi lo definisce il Re Mida del pop italiano, ma oserei dire che potrebbe essere quasi riduttivo.
Dardust è un artigiano con la testa di un sognatore immerso nella magia dell’incanto. Un animo non distratto dalla disillusione, un deus ex machina della musica italiana che non si accontenta del successo per bastarsi. Che vede nell’estremo, nel rischio, nell’espandersi il luogo in cui riconoscersi, esprimersi e conoscersi.
Nella ricerca insaziabile di identificarsi pluralmente, lontano da epiteti riduttivi, da luoghi comuni in cui incastrarsi per collocarsi. Fuggendo verso spazi impalpabili in cui trovare nuovi stimoli.
“Duality” è la natura doppia di Dario Faini, perfettamente risolta e ciclicamente ricongiungibile. In cui testa e cuore, poeta e architetto, giorno e notte, elettronica e classica si susseguono in un alternarsi spontaneo che non si corrisponde ma si incontra.
Un lavoro che scinde, che mostra la doppia natura del compositore, pianista e produttore marchigiano senza filtri. Ritraendo un immaginario dai contorni sfumati in cui immergersi senza porsi troppe domande.
Abbiamo parlato di “Duality” e della sua visione musicale direttamente con lui. Buona lettura!
Ciao Dardust, benvenuto su Parkett. Piacere di conoscerti. Vorrei partire chiedendoti come stai e quali sono le tue sensazioni a quasi un mese dall’uscita del disco?
Piacere mio! Lo definirei un disco che colpisce chi deve colpire e che viene scoperto di giorno in giorno da nuove persone e questo mi piace molto. Ovviamente non mi aspettavo un impatto come se avessi fatto un disco di featuring con milioni di streaming. Mi aspettavo una cosa più di nicchia, speciale, magica che prenda un pubblico che la scopre di volta in volta. La traduzione di questo la vedrò durante il live dove avrò il vero feedback. visto che è un disco che nasce da un concetto di spettacolo, e quindi lì avrò i veri feedback.
Il disco è diviso in due parti tra loro ben distinte, anche se secondo me il trait d’union è la melodia, che diventa l’elemento preponderante, il filo del racconto. Perchè, in questo racconto, era così importante per te contrapporre elementi antitetici, quindi cuore e cervello, la figura del poeta e quella dell’architetto?
Avendo unito nei dischi precedenti sempre pianoforte ed elettronica, ho sempre cercato un equilibrio tra i due. Avevo il tema del piano poi creavo l’ossatura, lo scheletro, il ritmo dell’elettronica, il sound design di un certo mondo elettronico, ma i due erano sempre conviventi, diciamo e quindi ad un certo punto il pianismo classico, minimalista, perchè minimalista è, volevo che non avesse sempre l’ossatura dell’elettronica e viceversa. Non volevo che facendo musica elettronica dovessi avere per forza di cose il pianoforte a fare da tema. Avevo bisogno di cercare altri timbri, e quindi separare e in un certo senso andare agli estremi. Secondo me estremizzare è un bell’esercizio, bisogna estremizzare, sta lì il concetto di questo lavoro.
Secondo me questo rapporto a due che viaggia parallelamente è ben rappresentato dai due pezzi “Petals” e “Petali” che rappresentano nella stessa maniera la dicotomia giorno notte, ricongiungendosi in un rapporto continuo che ritrae perfettamente la natura ciclica dell’album. Sei d’accordo?
Si. Petals è una delle mie tracce preferite perchè è minimalissima a livello elettronico, forse è stata la traccia più semplice da fare perchè l’ho fatta con tra tracce di Moog One, però è magica. E credo che la direzione del futuro lavoro, pensandoci su, potrebbe essere proprio quella: spogliare ancora, togliere. Andare al cuore della magia dei pezzi senza avere comunque tutto quell’impianto sonoro che rimane importante. Quel tipo di magia mi cattura.
All’interno del disco è dipinto, chiaramente anche in base a tutte le influenze presenti , il tuo immaginario creativo. Un tuo mondo visionario in cui saltano confini temporali e geografici, dove il Giappone convive benissimo con la tua realtà locale. Tutto ciò con una naturalezza sorprendente. Come riesci a tradurre il tuo mondo così variegato, rielaborarlo artisticamente senza cadere nella citazione ?
Eh, è una bella domanda. Non lo so, vado dritto al centro dell’ispirazione senza fare troppi ragionamenti. Anche se il disco elettronico è definito da architetto, più per il lavoro di artigianato e di dettaglio sul sound design, i temi nascono insieme ai mood e ai beat in maniera totalmente istintiva. Io mi faccio una playlist, prima di ogni disco ascolto tanto delle playlist accomunate da mood, colori o sensazioni che mi piacciono e poi cerco di scordarmi di tutto ciò. In teoria dimentico quelli schemi, quelle teorie e quei passaggi e quindi, dimenticando questo ma tenendo dentro di me quella precisa sensazione, la vado a ricreare in maniera nuova come se fosse appena nata. Questo rende non la citazione ma tratteggia un mood che rimane nell’aria e non mi metto mai a ripercorrere gli stessi accordi o gli stessi passaggi. Rimane il colore che cerco di tradurre nella mia memoria ed è quello che poi lo rende qualcosa di non didascalico.
Nella parte dedicata al pianoforte hai prediletto un po’ la regola del “less is more”. Quanto è stato difficile spogliarsi e mettersi a nudo su un luogo in cui in cui ti senti a casa come la tua grande tecnica pianistica ?
Molto. Ho avuto Taketo Gohara come guida, ed è successo che durante le session io scrivevo un tema in maniera fisica e poi iniziavo a studiare singolarmente i passaggi, a modificare gli accordi, a curare gli arpeggi, i contrappunti. Questa volta Taketo mi ha costretto a rimanere “semplice”: come sono nati i pezzi così dovevano andare nel disco. Questa cosa all’inizio mi ha destabilizzato, pensavo fossero troppo semplici così, andava fuori dal mio schema, del guadagnarmi in un certo senso la mia sfida, e lui invece si è opposto fino alla fine a farli rimanere così. Tra l’altro i brani che senti li ho registrati praticamente subito, appena fatti. Sono pieni di imprecisioni, di esitazioni, la dinamica non era quella giusta. Infatti dissi a Taketo “Adesso l’ho studiata, ora dopo due mesi torniamo in studio e li registriamo per il disco”. Quando sono tornato in studio lui mi ha fatto notare che fossero più vivi prima, mi disse “adesso sono troppo addomesticati, li conosci troppo, non c’è la magia, il tuo cuore e la tua anima delle prima registrazioni che abbiamo tenuto.” Alla fine, col senno di poi, ti dirò, è un disco sincero, dal cuore senza mediazioni. Onesto e sincero, come il concetto dell’emisfero destro quindi credo fosse perfetto così.
Sulla parte elettronica hai lavorato con Studio Murena, collettivo milanese con una formazione strumentale importante. Quanto influisce secondo te nell’approccio all’elettronica l’essere dei musicisti?
Con loro abbiamo colorato sostanzialmente alcuni passaggi, gli outro dei pezzi, le intro, qualche colore dentro per rendere il suono più organico nel complesso. Bhe sicuramente nell’elettronica più radicale certi passaggi sembra che debbano in un certo senso annullare la traccia compositiva. Spesso è un solo sound design che va su un mono accordo e non rende la sensazione di un’armonia. Questa è spesso una cosa che crea più hype tra i nerd elettronici. Quando si arricchisce la melodia, si moltiplicano gli accordi, si guarda verso un suono ’70 ’80 o ci si ispira a Moroder, sembra sempre che ci sia una sorta di pregiudizio, come se la cosa non fosse più cool, quando invece per me non è assolutamente vero. L’essere musicista deve essere un valore aggiunto. Ben vengano degli approcci più minimali, totalmente asciutti. Per me rimane fondamentale esplorare la melodia, sempre con equilibrio e gusto spero.
Dardust, ovvero musicista e attore teatrale, autore e produttore. Tre fasi formative della tua carriera artistica. Hai iniziato la tua carriera da artista suonando in una band, con questa hai anche ottenuto un discreto successo arrivando ad aprire i concerti di Vasco, Afterhours, Morgan etc.. Quanto è stato formativo per te quel primo periodo? Un’altra parentesi molto interessante è quella appena successiva alla fase band, in cui hai lavorato come attore teatrale. Immagino sia stata un’esperienza particolare e che ti ha dato molto in termini di visione. C’è qualcosa che ancora oggi ti porti dietro di quel modo di vedere la musica (e l’arte in generale)?
Fare teatro per anni mi ha insegnato un certo tipo di dinamica e ad imparare a capire le aspettative che ti crei in ogni percorso e come non assecondarle, come disattenderle. Mi ha insegnato a gestire l’imprevisto di scena, quello che porto sempre nei miei pezzi, questi contrasti che non ti aspetti. Questo modo di vedere viene dall’esperienza teatrale, ma allo stesso tempo da quell’esperienza porto molto l’attenzione e la cura verso il dettaglio, aspetto che si nota molto nei miei spettacoli, da un punto di vista scenografico, visivo e di design.
Avendo lavorato con la Stage Entartaiment che è una grossa società a livello internazionale, con cui ho realizzato degli show a Broadway, il clima era talmente rigido e c’era una cura maniacale per i dettagli, è stato quasi come andare a fare il militare nell’accezione dell’ordine e del rigore. Questo aspetto è diventato parte di me nella stesura degli spettacoli e credo sia un tesoro prezioso. Porta un meccanismo diverso dall’aver lavorato in una compagnia italiana, non perchè le compagne italiane siano peggiori di quelle internazionali, però rappresenta un meccanismo, un format che lavora su spettacoli resident che durano per un anno quindi si concentrano su un’organizzazione e un’attenzione incredibile su tutti gli elementi , e quell’approccio diventa assolutamente formativo.
Rimanendo sul concept della tua performace e di come la presenterai sul palco del “Duality Tour”, hai iniziato in questo periodo con dei mini concerti, mentre dal 2023 integrerai nel tuo spettacolo una forte componente audio visiva, accompagnando coloro che verranno ad ascoltarti dentro un tuo immaginario. Hai paura di condividere la tua visione a 360 gradi?
No anzi non vedo l’ora. Perchè dovrei avere paura?
Paura di condividere non solo la tua musica ma parte del tuo spazio vitale, della tua libertà creativa.
Si è proprio questo. Condividere il proprio immaginario e crearne uno con il pubblico, è una condivisione che per me è fondamentale se no starei a casa. Sta tutto lì il gioco, preferisco molto di più stare sul palco e suonare che stare in studio che è una cosa che un po’ diventa pesante. Il fine ultimo per me è la condivisione del mio immaginario.
In una delle ultime interviste che hai rilasciato hai detto che ti piacerebbe trasferirti all’estero. Per te trasferirti che significato assumerebbe? Sarebbe per te un modo per far emergere Dardust, dopo un anno che credo sia stato fondamentale per affermarti nella tua completa totalità d’artista, ancora di più?
Significherebbe un uscire dal proprio seminato perchè in Italia credo di aver fatto tanto. Sicuramente sarebbe un ripartire da zero, il presentarsi di una situazione nuova incerta da ricercare, che è quello che dovrebbero fare gli artisti. Potrebbe essere un esperimento, non so in che maniera, non so in che tempistiche però credo possa essere il prossimo step.
Riprendendo il rapporto con la critica musicale, come hai detto prima, c’è una fetta della critica che rimane su posizioni abbastanza puriste sulla visione dell’elettronica e oppongono ancora resistenza alla commistione tra generi, nonostante un’epoca musicale in cui la fluidità è un concetto ricorrente. A tuo modo di vedere il mercato italiano è pronto a questo esperimento o ancora vedi una resistenza da parte della critica a una delle due parti di Duality?
Tu credi che in Duality ci sia un gusto più pop? Si può essere, credo che però esista un pensiero sul fatto che io abbia lavorato come produttore nell’ambito pop. Credo che l’Italia sia ancora indietro su certi progetti musicali. Non posso che essere grato per tutte le cose che accadono oggi musicalmente, perchè ne accadono tante di interessanti. Mi piace questa salita lenta, questo maturare senza un exploit. Mi piace costruire un mattoncino alla volta, perchè poi ciò che sta sotto risulta sempre più solido piuttosto che avere la fiammata con un brano che nell’immaginario ti lega per sempre a quel brano o a quella modalità che rappresenta un piccolo tracciato del percorso. Diventa molto pericoloso essere liberi di andare altrove perchè devi sempre rispettare in un certo senso l’imprinting che hai dato quando sei stato scoperto in maniera più generalista e mainstream.
Quello che faccio per me, nel piccolo, è già abituarmi un po’ alla volta e abituare il pubblico che si può decidere di cambiare direzione e chi mi segue lo sa. Forse è una crescita più lenta che mi permette però di essere sempre totalmente libero. Mi piace molto questo aspetto. L’Italia, forse, fa ancora fatica verso un personaggio come me perchè non c’è, non ha precedenti nel bene e nel male. Fanno fatica ad incasellarmi: musicista, compositore, pianista, performer elettronico poi attore. Insomma, è una cosa complicata incasellarmi però d’altra parte devo dire : “Cavolo, bene comunque sono uscito fuori!”
La domanda da porsi è forse se ancora la critica oggi ha bisogno di dover incasellare in questo momento storico.
Questo lo dovresti dire agli altri. Per me non ha assolutamente nessun senso, zero. Non esiste, odio le nicchie radicali e chiuse, fondamentalmente la nicchia ha un’altra vita e la tradizione va tradita, altrimenti non ci si evolve mai. Si rimane dentro una nicchia da cui non poter costruire qualcosa di nuovo. Per avere un game changer, in un modo o nell’altro, è strettamente necessario rompere gli schemi e quello è il gioco che bisogna fare. Il pregiudizio esiste, ma bisogna superarlo.
Potevo realizzare un album di featuring con dentro tutti gli artisti con cui ho lavorato in questi anni, sarei andato al primo posto in classifica, avrei fatto trenta milioni di streaming a pezzo e poi? Cosa ho dato di nuovo? Nulla, come concetto. Non cadrò mai in questa tentazione. E fu così l’anno prossimo che arriverà l’album multifeaturing… scherzo. Non arriverà.
Non è quello che ti stimola, o più semplicemente che ti rende felice.
Assolutamente si.
Ultima domanda. Dove sta sta guardando Dardust e dove vede il suo futuro?
Lo vedo nelle colonne sonore, nei videogames, totalmente in un altro contesto. Soprattutto nel circuito live. Credo che il futuro porterà avanti l’idea di fare album per giustificare uno spettacolo teatrale o show. Vedo il mio futuro legato a questo tipo di tracciato che entrare in un certo meccanismo della discografia. Lo vedo in un mondo che sia al di là dei meccanismi prettamente discografici, che comunque hanno fatto parte del mio percorso.
Grazie mille Dardust, sei stato prezioso e grazie della tua sincerità.
Grazie a te!
ENGLISH VERSION
Hi Dardust, welcome to Parkett. Pleased to meet you. I would like to start by asking you how are you and what are your sensations almost a month after the release of the album?
My pleasure! I would call it a record that hits who needs to hit and is discovered every day by new people and I really like that. Obviously I didn’t expect an impact like if I made a featuring record with millions of streams. I was expecting something more niche, special, magical to appeal to an audience that discovers it from time to time. I’ll see the translation of this during the live where I’ll get the real feedback. since it’s a record that comes from a show concept, and so I’ll have the real feedback there.
The disc is divided into two distinct parts, even if in my opinion the trait d’union is the melody, which becomes the predominant element, the thread of the story. Why, in this story, was it so important for you to contrast antithetical elements, therefore heart and brain, the figure of the poet and that of the architect?
Having always combined piano and electronics in previous records, I have always sought a balance between the two. I had the theme of the piano then I created the backbone, the skeleton, the rhythm of the electronics, the sound design of a certain electronic world, but the two always lived together, let’s say and therefore at a certain point classical, minimalist pianism, because minimalist it is, I wanted it not always to have the backbone of electronics and vice versa. I didn’t want that when making electronic music I necessarily had to have the piano as the theme. I needed to look for other stamps, and then separate and kind of go to extremes. In my opinion, taking things to extremes is a good exercise, you have to take things to extremes, that’s the concept of this work.
In my opinion this relationship that travels in parallel is well represented by the two pieces “Petals” and “Petals” which represent the day-night dichotomy in the same way, reuniting in a continuous relationship that perfectly portrays the cyclical nature of the album. Do you agree?
Yes. Petals is one of my favorite tracks because it’s very minimal on an electronic level, maybe it was the easiest track to do because I made it with some Moog One tracks, but it’s magical. And I believe that the direction of the future work, thinking about it, could be precisely that: to undress again, to remove. Going to the heart of the magic of the pieces without having all that sound system that remains important. That kind of magic captures me.
Your creative imagination is painted inside the disc, clearly also based on all the influences present. Your visionary world in which temporal and geographical borders jump, where Japan coexists very well with your local reality. All this with surprising naturalness. How do you manage to translate your world so varied, rework it artistically without falling into the quotation?
Heh, that’s a good question. I don’t know, I go straight to the center of inspiration without thinking too much. Even if the electronic disc is defined by an architect, more for the work of craftsmanship and detail on the sound design, the themes are born together with the moods and beats in a totally instinctive way. I make a playlist, before each album I listen to playlists that share the mood, colors or sensations that I like and then I try to forget about all this. In theory I forget those schemes, those theories and those passages and therefore, forgetting this but keeping that precise sensation within me, I go to recreate it in a new way as if it had just been born. This renders not the quotation but outlines a mood that remains in the air and I never retrace the same chords or passages. The color that I try to translate into my memory remains and it is what then makes it something non-didactic.
In the part dedicated to the piano you favored the rule of “less is more”. How difficult was it to strip down and get naked on a place where you feel at home like your great piano technique?
Much. I had Taketo Gohara as a guide, and it happened that during the sessions I wrote a theme in a physical way and then I began to study the passages individually, to modify the chords, to take care of the arpeggios, the counterpoints. This time Taketo forced me to stay “simple”: how the pieces were born so they had to go on the record. This thing destabilized me at first, I thought they were too simple like this, it went out of my scheme, of earning my challenge in a certain sense, and he instead opposed to letting them stay that way until the end. Among other things, I recorded the songs you hear practically immediately, as soon as they’re done.
They are full of inaccuracies, of hesitations, the dynamic was not the right one. In fact I said to Taketo “Now I’ve studied it, now after two months we go back to the studio and record them for the record”. When I got back to the studio he showed me that they were more alive before, he told me “now they are too tame, you know them too much, there is not the magic, your heart and soul of the first recordings we kept.” In the end, in hindsight, I’ll tell you, it’s a sincere album, from the heart without mediation. Honest and sincere, like the concept of the right hemisphere so I think it was perfect like this.
On the electronic part you worked with Studio Murena, a Milanese collective with an important instrumental background. Dardust, in your opinion, how much does being a musician influence the approach to electronics?
With them we have substantially colored some passages, the outros of the pieces, the intros, some color inside to make the sound more organic overall. Well surely in the most radical electronics certain passages seem to cancel the compositional track in a certain sense. Often it’s just one sound design that goes on a mono chord and doesn’t render the feel of a harmony. This is often the thing that creates the most hype among electronic nerds. When you enrich the melody, multiply the chords, look towards a ’70 ’80 sound or get inspired by Moroder, there always seems to be some sort of prejudice, as if it’s not cool anymore, when instead for me It’s not absolutely true. Being a musician must be an added value. More minimal, totally dry approaches are welcome. For me it remains fundamental to explore the melody, always with balance and taste I hope.
Dardust, or musician and theater actor, author and producer. Three formative phases of your artistic career. You started your career as an artist playing in a band, with this you also achieved some success arriving to open the concerts of Vasco, Afterhours, Morgan etc.. How formative was that first period for you? Another very interesting parenthesis is the one just after the band phase, in which you worked as a theater actor. I guess it was a particular experience and one that gave you a lot in terms of vision. Is there something you still carry with you today of that way of seeing music (and art in general)?
For years, doing theater has taught me a certain type of dynamic and to learn to understand the expectations that you create for yourself in every path and how not to indulge them, how to disregard them. He taught me how to handle the unexpected on stage, what I always bring to my pieces, these contrasts you don’t expect. This way of seeing comes from theatrical experience, but at the same time from that experience I bring a lot of attention and care towards detail, an aspect that is very noticeable in my shows, from a scenographic, visual and design point of view .
Having worked with Stage Entartaiment which is a large international company, with which I have made shows on Broadway, the climate was so harsh and there was an obsessive attention to detail, it was almost like going to the military in the sense of order and rigor. This aspect has become part of me in drafting the shows and I believe it is a precious treasure. It brings a different mechanism from having worked in an Italian company, not because the Italian companies are worse than the international ones, but it represents a mechanism, a format that works on resident shows that last for a year and then focus on an organization and a ‘amazing attention to all the elements, and that approach becomes absolutely formative.
Remaining on the concept of your performance and how you will present it on the stage of the “Duality Tour”, you have started in this period with mini concerts, while from 2023 you will integrate a strong audio-visual component into your show, accompanying those who will come to listen to you in a your imagination. Are you afraid to share your 360-degree vision?
No indeed I can’t wait. Why should I be afraid?
Fear of sharing not only your music but part of your living space, your creative freedom.
Yes it is. Sharing one’s imagination and creating one with the public is a sharing that is essential for me otherwise I would stay at home. It’s all about the game, I much prefer being on stage and playing than being in the studio which is something that gets a bit heavy. The ultimate goal for me is the sharing of my imagination.
In one of the last interviews you gave you said that you would like to move abroad. What would the meaning of moving for you? Would it be a way for you to bring out Dardust, even more after a year which I believe was fundamental for establishing yourself in your complete totality as an artist?
It would mean stepping out of one’s field because I think I have done a lot in Italy. Surely it would be starting from scratch, the presentation of a new uncertain situation to be sought, which is what artists should do. It could be an experiment, I don’t know how, I don’t know how long will be but I think it could be the next step.
Returning to the relationship with music criticism, as you said before, there is a slice of criticism that remains on fairly purist positions on the vision of electronics and still opposes resistance to the mixing of genres, despite a musical era in which fluidity is a recurring concept. In your view, is the Italian market ready for this experiment or do you still see resistance from critics to one of the two parts of Duality?
Do you think Duality has a more pop flavor? It may be, but I think there is a thought that I worked as a producer in the pop field. I think Italy is still behind on certain musical projects. I can’t help but be grateful for all the things happening musically today, because so many interesting things happen. I like this slow climb, this maturing without an exploit. I like building one brick at a time, because then what’s underneath is always more solid rather than having the blaze with a song that in the imaginary binds you forever to that song or to that modality that represents a small path track. It becomes very dangerous to be free to go elsewhere because you always have to respect in a certain sense the imprinting you gave when you were discovered in a more generalist and mainstream way.
What I do for myself, in a small way, is already getting used to it a little at a time and getting the public used to the fact that you can decide to change direction and those who follow me know it. Maybe it’s a slower growth that allows me to always be totally free. I really like this look. Italy, perhaps, still struggles towards a character like me because it doesn’t exist, it has no precedents for better or for worse. They struggle to pigeonhole me: musician, composer, pianist, electronic performer then actor. In short, it’s a complicated thing to pigeonhole myself, but on the other hand I have to say: “Damn, well, I came out anyway!”
The question to ask is perhaps whether criticism today still needs to pigeonhole this historical moment.
You should tell this to others. It makes absolutely no sense to me, zero. It doesn’t exist, I hate radical and closed niches, basically the niche has another life and tradition must be betrayed, otherwise we never evolve. You remain inside a niche from which you cannot build something new. To have a game changer, in one way or another, it is strictly necessary to break the mold and that is the game that must be played. Prejudice exists, but it must be overcome.
I could have made a featuring album containing all the artists I’ve worked with over the years, I would have gone to number one in the charts, I would have streamed thirty million a piece and then? What did I give again? Nothing, as a concept. I will never fall into this temptation. And so it was next year that the multifeaturing album will come…just kidding. It won’t come.
It’s not what stimulates you, or more simply what makes you happy.
Absolutely yes.
Last question. Where is Dardust looking and where do you see his future?
I see it in soundtracks, in video games, in a totally different context. Especially in the live circuit. I think the future will bring forward the idea of making albums to justify a theater or show. I see my future linked to this type of track that enters a certain mechanism of the discography. I see it in a world that goes beyond purely recording mechanisms, which have been part of my journey anyway.
Thank you so much Dardust, you have been invaluable and thank you for your sincerity.
Thanks to you!
Intervista a cura di Martina Ballocco e Gianluca Faliero