Dario Rossi, artista poliedrico nella scena musicale italiana, è il nostro ospite di oggi su Parkett, in occasione della sua performance al Disorder Festival di Paestum.
Dario Rossi è il nostro ospite di oggi su Parkett Channel. Il drummer, classe 1988, è riuscito,nel corso degli anni, ad imporsi come uno degli artisti più eclettici ed unici nel panorama italiano. Le sue performance, che hanno catturato l’attenzione di passanti in tutte le capitali europee, da Parigi ad Amsterdam, da Berlino a Barcellona, rappresentano un unicum nella produzione musicale.
Tutto inizia nel 2011 a Londra: la sua performance a Piccadilly Circus, realizzata attraverso percussioni ottenute da elementi riciclati, cattura l’attenzione dei turisti della capitale inglese. Presto consacrandolo a star internazionale.
Dario non è voluto però rimanere dentro una posizione statica. In questi anni ha arricchito il suo bagaglio musicale ed ha integrato alle sue performance percussive, una componente elettronica. Musica nuova, fresca ed innovativa.
Lo scorso 27 aprile è uscito il suo nuovo lavoro “Hic et Nunc” , un album con notevoli influenze Nu Disco ed Italo House che Dario sta presentando nei suoi ultimi live. Al Disorder Festival si è esibito in una performance travolgente. Con un’empatia e sensibilità per il pubblico caratteristica di Dario.
Vi lasciamo con le sue parole.
Ciao Dario.Benvenuto su Parkett, è un piacere averti come nostro ospite. Vorrei sapere come stai vivendo questo periodo di rinascita generale per tutto il settore della musica dal vivo e degli eventi.
Ciao a tutti, il piacere è tutto mio e vi ringrazio molto per aver pensato di intervistarmi. Sto vivendo questo periodo di rinascita con molto entusiasmo, e ho tantissime date in programma per il periodo estivo. Credo inoltre che questa fase sia per tutti noi una sorta di “ricapitolazione”, perché ora possiamo finalmente concederci il permesso di concretizzare tutto quel che abbiamo costruito dentro di noi in questi due anni di stallo. Personalmente non mi sono mai fermato, sebbene abbia passato dei periodi piuttosto bui, e ho cercato di interpretare la pandemia come un’occasione per imparare a decostruirmi e mettermi nuovamente in gioco al di fuori della mia comfort zone.
Negli anni precedenti al 2020 ho vissuto la mia vita prevalentemente negli aereoporti , hotel e palcoscenici, e ho avuto più volte la sensazione che anche la mia attività di musicista stesse divenendo parte di una silenziosa routine. Mi sono guardato dentro nel momento in cui non ho avuto più la possibilità di svolgere il mio lavoro, e piuttosto che arrabbiarmi ho scelto di ridimensionarmi e mettermi in contatto con me stesso affinché fossi davvero pronto per una “nuova ripartenza”. È stato da lì che ho iniziato a lavorare con i bambini, proponendo dei lavoratori sperimentali di percussioni e musica elettronica. È anche grazie solo se ora mi sento pronto per riprendere seriamente in mano la mia carriera da artista!
La tua storia da percussionista, dopo i tuoi studi, inizia per le vie delle grandi città e capitali europee. Qual è la cosa più importante che hai imparato suonando per strada?
Credo sia stato grazie alla strada che ho imparato a non aspettarmi nulla di definito da tutte le situazioni che vivo, ma semplicemente ad interpretare e vivere ogni cosa che accade lungo il mio percorso. Suonare per strada è difatti qualcosa di estemporaneo, e l’artista non ha la possibilità di decidere a priori il target di persone che vorrebbe avere davanti a se. Non si può difatti parlare di un vero e proprio pubblico, ma piuttosto di “semplici” passanti con storie e vissuti molto diversi tra loro, che convergono però nella magia di quel momento.
La tua capacità ti consente di trasformare ogni oggetto in musica, usufruendo delle infinite possibilità sonore che spesso ignoriamo. Come hai sviluppato questa sensibilità e come riesci tutt’oggi a trovare sempre nuovi spunti nella realtà che ci circonda?
Ho iniziato ad avvicinarmi al suono e alla musica sin dalla mia infanzia, nei primi anni ‘90. Mi piaceva molto ascoltare le musicassette di qualche anno prima dei miei genitori, sulle quali erano incisi diversi album e compilation degli anni ‘80, sul versante Italo-disco, synth-pop e New wave. Pur non sapendo cosa fossero, ero molto affascinato dal timbro dei sintetizzatori e drum machine e ricordo che domandavo a mio padre come fossero stati ottenuti quei suoni. Lui non era un musicista, ma un giorno mi rispose: “quel suono potrebbe essere un barattolo”.
Scoprì soltanto molti anni dopo che si trattava di un suono analogico processato, ma all’epoca fu di fondamentale importanza per me ricevere quella risposta e iniziai ben presto a sperimentare soluzioni per ottenere i suoni che mi piacevano.
Intorno ai 7/8 anni creai il mio primo set composto da oggetti con lo scopo di emulare le batterie elettroniche. Ad esempio, attaccavo collane e catene sotto la superficie di tutti i barattoli che reperivo in casa per ottenere un sound più “freddo” e metallico, simile allo snare della SIMMONS. Per riprodurre l’hi-hat facevo invece rimbalzare a terra l’anta di uno stendino.
Avevo fatto un foro con il saldatore da elettricisti su un lato del fusto rosso delle LEGO, ci incastravo dentro una penna BIC che sorreggeva un piccolo coperchio che aveva un suono che si avvicinava alla campana tibetana. Sono sempre stato attratto dai suoni del mondo, e riesco tutt’oggi a trovare nuovi spunti soprattutto durante le mie trasferte all’estero. Mi capita spesso di “rubare” samples negli aeroporti o stazioni ferroviarie, e mi succede alcune volte di avere già la traccia in mente subito dopo aver “colto l’attimo” sul mio registratore portatile!
Nella tua musica le percussioni incontrano la musica elettronica. Come sei riuscito ad amalgamare perfettamente questi due elementi e come cerchi di fare evolvere questo legame nella tua musica?
Credo di essere riuscito a creare questo connubio particolare, perché ho scelto semplicemente di seguire il mio istinto. Ho iniziato a fare i primi veri esperimenti di musica elettronica nel 1998, quando alcuni miei parenti mi regalarono una tastiera “Bontempi”. Ricordo che registravo su nastro attraverso un registratore mono con il microfono incorporato, e c’era dunque una cassetta sulla quale incidevo la ritmica suonata interamente con il mio set di oggetti “modificati”, e l’altra sulla quale incidevo la parte “sintetica” suonata con la tastiera sopra citata.
Infine sovrapponevo assieme le due registrazioni su un unico nastro, ed ecco che avevo pronta la mia traccia!
Quando ero bambino mi permettevo di fare quello che volevo, e usavo come bacchette due antenne radio FM segate a metà. Il discorso è sicuramente cambiato qualche anno dopo, quando ho deciso di intraprendere gli studi musicali e provare a condividere la mia passione all’interno di vari gruppi musicali, ovviamente come batterista. Ho avuto delle bellissime soddisfazioni, ma sentivo che per alcuni versi non riuscivo ad esprimere una parte di me.
C’era dunque il Dario “batterista” e il Dario “compositore, che viaggiavano su due binari diversi!
Credo sia stata la vita stessa che mi ha portato in seguito a realizzarmi facendo esattamente quel che nessuno mi aveva insegnato, e cioè creare suoni con qualsiasi cosa! La tecnica è un veicolo di espressione molto importante, ma non ha molto a che fare con la comunicazione perché tutti noi ci raccontiamo con la nostra anima. Per concludere, so perfettamente che sarò sempre in evoluzione, perché non smetterò mai di cercarmi dentro e fuori di me.
Lo scorso 27 aprile è uscito il tuo Ep “Hic et Nunc”. Come è nato questo lavoro e quali sono le emozioni che volevi trasmettere all’ascoltatore attraverso questo disco?
Hic Et Nunc” significa “Qui Ed Ora”. Era proprio questa la vibrazione che volevo racchiudere all’interno delle quattro tracce contenute nell’EP, che hanno delle sonorità sicuramente più solari e leggere rispetto al mio precedente album “1959”, uscito lo scorso anno. “Hic Et Nunc” è un manifesto all’insegna della ripartenza interiore, con la speranza di poter tornare a riassaporare la semplicità nelle piccole cose.
Un’esperienza importante credo sia stata nell’incontro con il pianista Giovanni Allevi, con cui hai dato vita ad una memorabile performance nella terrazza del Pincio a Roma. Che ricordo hai di quell’esperienza e come è stato esibirti con Giovanni?
Ho passato una bellissima giornata con la troupe di Rai Play, e mi sono trovato davvero a mio agio con Giovanni Allevi. L’esibizione è stata davvero divertente, e c’è stato da subito molto feeling tra di noi. Ho percepito quanto fosse sinceramente colpito, quasi commosso dalla mia storia, ed è stato un onore poterla raccontare ad un artista del suo spessore. Ricordo che gli piacque moltissimo una frase che ho detto nell’intervista, che mi fece lui stesso: “suonare in strada è creare un instante che non sarebbe mai esistito”.
Ti sei esibito da contesti televisivi a grandi festival, mi viene in mente ad esempio Awakenings. Stai studiando anche nuovi show Audio visivi o particolari performance per evolvere ulteriormente il tuo concetto di live show?
Sto attualmente lavorando all’abbinamento con delle proiezioni da integrare ai miei live show, e in particolare produrre dei visual generativi che rispondano agli impulsi ritmici che produco.
Ti sei esibito al “Disorder Festival” a Paestum..cosa hai espresso in questa tua performance?
Per me è stato un grandissimo piacere esibirmi in chiusura al “Disorder Festival”, dove ho suonato le tracce tratte dal mio ultimo EP ed ho proposto il mio live elettro acustico che combina la mia entità da producer con quella da drummer.
Ultima domanda. Come si vede Dario Rossi tra dieci anni e quali sono gli obiettivi che vuoi raggiungere prossimamente?
In questo periodo sto lavorando ad un nuovo album in studio, nel quale sto riscoprendo la mia passione per le sonorità 80’s.Per il resto, non saprei davvero cosa rispondere! L’esperienza della pandemia mi ha insegnato a vivere giorno dopo giorno, senza programmare troppo il mio futuro.