Partiamo dall’ inizio: una tiepida sera primaverile a Firenze, Teatro della Pergola.
Davanti a me un megaschermo, un Mac ed un synth. Seduto in attesa dell’inizio del live di Supercodex, l’ultimo album di Ryoji Ikeda, cerco di pensare a cosa dovrei aspettarmi da un set del genere: certo, avevo ascoltato buona parte della sua discografia e dato un’occhiata a qualche sua performance su Youtube, ma sapevo che quella dal vivo sarebbe stata un’esperienza completamente diversa. Si abbassano le luci.
Ikeda entra con passo svelto e si posiziona dietro al computer senza rivolgerci lo sguardo neanche per un attimo (è evidente, data la sua quasi completa immobilità durante tutto l’arco del set, come esso voglia focalizzare l’attenzione dello spettatore solo sulla sua musica e sul megaschermo posto dietro di lui). Pochi istanti dopo escono due glitch dal canale destro e sinistro dell’impianto, leggermente sfasati tra loro: finiscono dopo qualche secondo per sovrapporsi, per poi nuovamente disallinearsi. Sarà la cosa più vicina al tradizionale concetto di musica che avrò modo di ascoltare per i prossimi 45 minuti. Ikeda è l’anti-musica, o almeno, è l’anti-musica per come la cultura popolare ci ha abituati a concepire quest’ultima.
Il suo è un live estremo, molto più di tutti i precedenti: ovviamente qualunque regola della teoria musicale in Supercodex va a farsi benedire, ma nonostante quello che si può pensare, il live non è concepito per far andare in trance lo spettatore, come qualcuno potrebbe pensare ad esempio osservando il megaschermo (diviso in due parti per indicare canale destro e sinistro) che proietta a velocità inconcepibili pixel bianchi e neri per l’ intera durata del live. Il set di Ikeda, al contrario, è pensato per tenere lo spettatore sull’attenti fino all’ultimo: non appena il cervello riesce a captare qualcosa di simile ad una struttura sonora che si ripete ed inizia a rilassarsi lasciandosi trascinare dal loop, ecco che Ikeda ci punisce, modificando radicalmente ritmo e velocità, oppure semplicemente abbassando di colpo il volume a 0 db.
E’ un’esperienza quasi frustrante per un cervello pigro come quello umano, a dir la verità, ed Il risultato non tarda a farsi sentire: la mia mente infatti, paradossalmente, nonostante debba essere completamente presa dal megaschermo di fronte a me e dai suoni ad alto volume, dopo 10 minuti inizia a vagheggiare su qualsiasi argomento non inerente alla musica, e riportarla al live di Supercodex non è affatto facile.
Il problema è che in 45 minuti Ikeda da noi umani, semplicemente, pretende troppo: ad esempio, i suoni da lui usati sarebbero estrapolati da codici matematici, ma non ci è dato sapere quali essi siano nè come essi vengano trasformati in frequenze musicali. Come si può aspettare quindi Ikeda che chi ascolta riesca ad apprezzare il suo live anche attraverso una luce matematica? Anche I suoni stessi sembrano non avere una logica e di conseguenza vengono interpretati dagli spettatori come frequenze spalmate casualmente nella dimensione temporale. Senza dubbio, alla fine dei giochi, qualcuno ha apprezzato il live di Supercodex pur avendolo concepito in una dimensione puramente casuale: la realtà però è molto meno semplicistica, e ben più affascinante di quanto i presenti siano riusciti a capire.
Ryoji Ikeda quella sera ha voluto imporsi come insegnante dimenticandosi però di fornirci i libri di testo.
Andrea Nerla