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Il dibattito su se sia giusto vietare l’uso dei telefonini nelle discoteche e nei club ormai serpeggia sui social. Ma è davvero questo il problema della club culture?

Chiunque segua almeno un personaggio, un magazine o un organizzazione di eventi si sarà imbattuto almeno una volta sul tema della no phone policy.

Per quelli che non conoscono di cosa parliamo, si tratta di una politica che vieta l’uso dei telefonini durante gli eventi musicali.

Le ragioni sono le più disparate: si va dal coinvolgimento che l’esibizione dovrebbe suscitare, al rendere più “autentico” l’intero contesto, alla sensazione di fastidio di alcuni artisti nel vedere le persone “assenti”, e così via.

Con “assenza” si intende, ovviamente, l’attenzione posta all’immortalare la performance piuttosto che godersela in pieno, per poi condividerla sui propri canali social o, più semplicemente, conservarne memoria.

Nel club, secondo i veterani della club culture, le persone dovrebbero togliere i propri panni e costumi sociali quotidiani e diventare un tutt’uno con il proprio vicino di pista e con la musica stessa.

Effettivamente, capita spesso di sentire sensazioni strane, diverse, quasi eteree, quando si sentono certi dischi suonare dagli amplificatori (pelle d’oca inclusa, per alcuni dotati).

Viene da sé che se mentre questa specie di metempsicosi (Franchino, ci manchi tanto) è in corso o peggio se è solo al suo inizio, estrarre il telefonino e “riconnettersi” ai quotidiani costumi della propria vetrina sociale è quanto di più antitetico possa esserci.

Significherebbe, infatti, tornare lucidi e spremere le meningi per pensare ad una didascalia accattivante, taggare il profilo social della festa in cui ci si trova (o magari, del locale in cui questa si sta svolgendo), il nome dell’artista o i nomi degli amici con cui si è.

Tutto questo, secondo i più, solo e soltanto per rispondere al bisogno onanistico di condivisione a tutti i costi.

La polemica sulla no phone policy, perché il semplice scambio di opinione ha ormai assunto le caratteristiche di una guerra d’opinione a colpi di post, è arrivata ad avere dei risvolti purtroppo grotteschi.

Stante che tale tendenza è percepita come snaturante, la fazione degli integralisti spinge gli osservatori a pensare che certi concept non siano più “degni” di essere considerati parte della club culture solo perché forzati ad applicare la no phone policy, che dovrebbe essere naturale per i “veri parties“.

Ancora, si cerca di inculcare l’idea che, fermo restante quanto detto poco fa, gli eventi “degni” siano solo quelli in cui l’uso del telefonino è consentito ma scientemente non utilizzato dalle persone, perché troppo coinvolte dalla musica per permettersi di distrarsi.

Tolto quanto puerile possa essere cercare di mortificare concepts e parties che, tra gli altri meriti, muovono grandi masse di ascoltatori e permettono a giovani artisti di esibirsi in clubs prestigiosi, l’uso stesso del telefonino e l’utilizzo della no phone policy come discrimine si presta a molteplici considerazioni.

Senza la pretesa di essere esaustivi ma solo cercando di fornire una lettura critica del fenomeno, cerchiamo di elencare quegli spunti di riflessioni che, in un’epoca come quella di oggi, è impossibile non fare.

1) Il DJ superstar

Artisti come il nostrano Anyma, la crew multinazionale Keinemusik, il sudafricano Black Coffee ed i loro brands, hanno superato il concetto stesso di clubbing, unendo in un ibrido singolare sia il festival che il club.

Queste realtà hanno portato le loro performances spettacolari su palchi molto prestigiosi, e si sono degne di grandissimi numeri, gestibili da poche realtà e pochissime (purtroppo) in Italia.

Già questo basta a giustificare l’uso del telefono cellulare durante questi eventi: non si vuole perdere l’occasione di poter dire “io c’ero”, una volta che si ha la possibilità di assistervi dal vivo.

Scontata, ripetiamo, la necessità di utilizzare il cellulare, a ragion veduta più forte di quando si partecipa ad una festa nella propria città, in un piccolo club, con musica radicalmente differente.

2) L’insostenibile richiesta di condivisione

I tempi sono cambiati, e di conseguenza sono cambiate le necessità e le richieste, sia di chi balla sia verso chi propone la propria idea di party.

Come insegna l’evoluzione, o ci si adatta o si soccombe. Lungi da catastrofismi di qualsivoglia tipo, non è possibile non notare la diffusione che certi generi musicali e certi brand stanno avendo.

Se i meme sono considerabili uno specchio reale della società, basta pensare a quanti meme sono stati realizzati quest’estate sul fatto che, su moltissime storie Instagram che ritraevano spiagge, tramonti e paesaggi mediterranei si sentissero sempre le stesse canzoni.

Tra queste, sicuramente, possiamo annoverare The Rapture Pt. III, Move, Yamoré o anche Ritmo, del nostro connazionale Raffa FL.

Ciò detto, ed allacciandosi con il punto precedente, è normale che quando e se capita di avere a pochi passi uno di questi artisti, o mentre un’artista terzo suona un pezzo virale, si senta il bisogno di condividere il momento, più che goderselo.

Scelta individuale, certo, ma comunque una scelta talmente diffusa nella nostra quotidianità da non poter essere così condannabile.

Coloro che pensano questi eventi “non degni” o “inferiori” solo per l’ampio uso che le persone fanno del telefono cellulare, andrebbe chiesto come mai in altre occasioni non sentano la necessità di ricordare e rivivere il momento sfogliando la propria galleria telefonica.

3) che titolo si può parlare di cosa è vero e cosa non lo è?

Sia che si parli di politica, di opinioni, di musica o di idee, quello che conta è la legittimazione. Se una persona, indicata come degna di tale fregio, enuncia una stupidaggine colossale, troverà comunque chi lo seguirà, proprio perché legittimato a pensarla in un certo modo.

Di contro, una persona che non gode di alcun credito potrebbe anche dire la più santa delle verità: si scontrerebbe con un muro di gomma che gli restituirebbe il suo pensiero condito di insulti.

Nel mondo della musica elettronica, il mantra è da sempre “fai quel che vuoi, ma fallo con rispetto”.

Parafrasando un famoso tweet di Steve Angello, è sempre meglio rendere un’idea o una festa poco attraente attraverso una propria proposta che parlarne semplicemente molto male.

Se la vera “club culture” o “DJ culture”, quindi, enuncia sostanzialmente il vivere e lasciar vivere, e nel caso di una sfida l’accento è comunque posto sul processo creativo, che senso ha usare la no phone policy come arma?

E ancora, altra domanda, con quale titolo si può screditare chi applica questa politica solo perché in altre occasioni non ce n’è bisogno?

4) Il fattore contestuale

Al giorno d’oggi lo sport è uno dei settori più redditizi e seguiti in assoluto. Orde di appassionati viaggiano anche continenti per vedere le prestazioni dei propri miti sportivi. Per non parlare poi, di chi si allena duramente sperando un giorno di poter sfidare gli Dei del loro Pantheon.

Nonostante questo, se qualcuno avesse l’idea di riproporre, con tutti i crismi del caso, uno spettacolo di lotta Gladiatoria, sarebbe quantomeno imprigionato. Eppure, un tempo, i Gladiatori erano delle vere e proprie stelle, che combattevano per la propria vita e la propria libertà.

Con questa immagine (forse un po’ estrema), vogliamo spingervi a riflettere su un tema spesso tralasciato: il fattore contestuale.

Le realtà che sono costrette ad applicare la no phone policy sono realtà caratterizzate da una forte componente spettacolarizzante.

La loro popolarità, oltre questa particolarità di cui sopra, è dovuta ad un importante shift delle tendenze musicali verso ritmiche sempre più dure. Assistiamo da un anno a questa parte al ritorno in forze della progressive house, della trance, della UK Garage e dell’Hard Techno.

Generi, questi, che sono sempre stati presenti nel panorama ma che negli ultimi anni sono stati più quiescenti, indicati dalla maggior parte degli amatori come baluardi intramontabili degli anni ’90.

Sebbene nelle attuali occasioni in cui sono proposti questi generi non si sentano le sonorità di una volta (come è normale che sia) a meno che non si tratti di serate revival, è innegabile constatarne il ritorno in forze.

La vocazione di questi generi, almeno per come li si intende oggi, sono i grandi club. I grandi clubs chiamano lo spettacolo, lo spettacolo chiama la condivisione e quindi, le foto e i video.

Abbiamo assistito al ritorno dell’Italo Disco, della Nu-Disco, dell’House Music, e questi generi hanno avuto il loro diritto di esprimersi appieno. Perché dovrebbe essere diverso per la “compagnia dei ’90”?

Conclusioni: l’elefante nella stanza

Tutto questo gran parlare vuole, in fin dei conti, andare a dire un’unica cosa: stiamo sparando contro il bersaglio sbagliato.

Se guardiamo ai numeri, la club culture è in seria difficoltà. Sono sempre meno le persone che vanno a ballare, i costi di una serata sono molto più elevati di solo due anni fa e spesso addirittura proibitivi, i cachet di alcuni artisti sono diventati insostenibili e i proprietari dei grandi club sono in sofferenza.

Steven Basalari, imprenditore e proprietario di una delle discoteche più grandi d’Italia, in un video pubblicato sul suo profilo Instagram, ne parla chiaramente, e sebbene per sua stessa ammissione il contenuto di questo video può essere fraintendibile, è innegabile ci siano delle verità importanti.

Vero è, dice Basalari, che la musica dovrebbe essere la colonna portante di un evento, ma purtroppo a causa di una molteplicità di fattori, contano anche i numeri che devono essere realizzati per far sì che tutto il business sia sostenibile.

La no phone policy non è il problema principale, ma forse, per alcuni, è più conveniente fare la guerra sulle minuzie anziché cercare, con le proprie idee, di impedire che il clubbing diventi un lusso per pochi eletti.