È con ogni diritto uno dei produttori più prolifici ed acclamati nel quadro dell’intera panoramica elettronica. Pietro Iannuzzi, al pubblico Indian Wells, ricade in quella categoria artistica ultraprivilegiata di incredibile tatto sperimentale; uno spesso motivo di vanto per il nostro paese e definitivo sigillo a sigla dello stato di salute di un riferimento musicale che negli ultimi anni sta arraffando tutto ciò che gli spetta.
Le dinamiche di autocritica che circondano l’Italia sono innumerevoli, talmente tante che più che un singolo articolo servirebbe un intero dossier a raccoglierle tutte per categoria. Le code di questa difficilissima industria sembra che facciano ancora estrema fatica a vedersi coadiuvate da un substrato politico e culturale che, non per forza parli la stessa lingua, ma perlomeno si sforzi di adoperare un sincero intento di incontro. Non si nega che molte di queste volgano quasi ad esagerarsi, grossi passi avanti infatti sono stati compiuti nel tentativo di incontrare la disciplina istituzionale alle esigenze di tutta una classe imprenditoriale che, in quanto esponenti di un settore economico a loro stante, non possono essere assolutamente ignorate (…e no. Le “Notti Bianche” provinciali non rientrano nella categoria).
Cosa colma allora il divario percepito tra le identità nostrane e il modello “Ambasciatori della notte e Città 24h” appurato nelle capitali di Francia, Inghilterra, Germania ed Olanda? Molto Semplice.
Dove è la burocrazia a “distanziarci”, l’interesse dall’esterno si tiene alto grazie l’operato indipendente di singoli attori, i protagonisti ultimi nel quadro d’interesse di tutti. Sono figure come quelle di Indian Wells che con la loro dedizione permettono all’Italia di continuare a registrare la sua presenza: sono l’arte e gli artigiani dell’elettronica nostrani – termini che prendiamo in prestito dalle opportune sedi con tutto il rispetto e le cautele del caso – a riservare il territorio da qualunque nota immeritevole (o peggio ancora, proprio da nessuna nota).
Chiaramente, non si diventa un protettore dell’avanguardia dall’oggi al domani per benedizione. Quello di Indian Wells ad esempio, è un percorso che si è scandito con poche, giuste mosse a partire dal 2012 con l’uscita di “Night Drops” (Bad Panda Records). Quell’album, cinque anni dopo, suona curato così come lo era ad inizio decennio; potessimo riassumerlo con un solo brano da questo estratto, probabilmente la scelta ricadrebbe su Love Frequencies sicché tutto il lavoro è un romantico gioco di suoni e delicatissimi impegni melodici, un richiamo allusivo cui quel titolo fa esplicito riferimento. Ben tre anni dopo arriva il secondo long-player, “Pause”, un lavoro così coerente al precedente tanto da sembrarne un armonioso seguito. A proposito di “seguiti”, nell’estate dello stesso anno Bad Panda pubblicherà anche l’inedito remix-project dello stesso album ove configureranno i contributi di artisti del calibro di Jolly Mare, Elektro Guzzi, Vaghe Stelle, Ital Tek… praticamente, materiale di finissima fatturazione.
Ad Agosto dell’anno successivo, Indian Wells torna a fare capolino con il singolo Racquetes, brano accolto con infinito entusiasmo dalla più influente critica musicale di settore; una rete ambient a sostegno di un’ossatura decisamente più club-oriented rispetto ogni altra produzione passata fino adesso in rassegna.
Arriva l’anno corrente e con esso “Where The World Ends” (in uscita l’8 Settembre) e Cascades – primo estratto pubblicato come singolo a Maggio. In merito però questi confini del mondo preferiamo non anticiparvi nulla e lasciamo che sia Indian stesso a raccontarcene/vene di più…
Giugno 2012 – Settembre 2017, cinque anni che immaginiamo abbiamo avuto in incredibile effetto impattante sulla tua misura professionale. Chi era Indian Well all’epoca, chi è stato nel frattempo e chi è adesso?
Bella domanda. Quando ho iniziato con questo progetto non avevo assolutamente idea di quelli che poi sarebbero stati gli sviluppi e le conseguenze. Tutto è iniziato davvero senza alcuna aspettativa, ricordo ancora felicemente il periodo che portò alla stesura di Night Drops, avevo semplicemente voglia di buttare giù un po’ di idee e pubblicarle. All’epoca ero sicuramente molto inesperto, non avevo idea di come si facesse un live e pochi mezzi a disposizione. Per Night Drops utilizzai un laptop abbastanza datato e samples di tennis presi qui e li, non avevo neanche un controller o una tastiera. Successivamente anche iniziando a suonare dal vivo ho acquisito un po’ più di sicurezza e ho iniziato a lavorare sul suono e su aspetti un po’ più “tecnici”. Ora ho sicuramente più esperienza anche se mi sento ancora agli inizi con moltissime cose da imparare. Ecco, se dovessi ridurre tutto a un solo termine direi che oggi mi sento un “Esploratore”.
Where The Worls Ends trasuda una maturità incredibile, non prima che non ci fosse, ma dalle brevi anteprime già disponibili quella natura club-oriented che abbiamo calzato ai tempi di Racquetes sembra ancora più scolpita e motivata. Night Drops e Pause se ascoltate a confronto suonano molto più Chill. C’è un ordine specifico di ragioni se hai indirizzato il tuo suono verso questa direzione? Pura e semplice sperimentazione?
E’ vero, questo nuovo album suona meno “chill” anche se poi ci sono degli episodi più rilassati, ma in generale sì, è un discreto cambio di rotta rispetto alle cose precedenti. Racquets se ci penso è nata quasi per gioco, non mi aspettavo avesse un riscontro importante.
In realtà io non sono un clubber e non penso di sentirmi particolarmente a mio agio nella musica “da club”, non sono neanche capace di fare il dj e neanche ho voglia di farlo, pensa. Mi incuriosisce e affascina “la velocità”, la parte ritmica di cose magari club-oriented, la “braindance”. Voglio dire, le robe a la Four Tet, per citarne uno conosciuto, le puoi ballare ma anche ascoltare tranquillamente a casa, il modo in cui sono strutturate, i suoni, gli immaginari sono cose che mi stimolano molto il cervello. Per cui si, alla fine è sperimentazione, è una prospettiva diversa, magari non troppo vicina a quello che sono ma per me molto interessante in questo momento. Poi chissà.
La musica elettronica negli ultimi anni sta esprimendo un potenziale vibrante come è stato solo raramente nella sua linea temporale. Icone come Trentemøller, The XX, Disclosure, James Blake, Moderat, Floating Points hanno dimostrato le possibilità di quel connubio indietronico che ora va così tanto di moda e che ha accomunato quelle categorie di pubblico che altrimenti non avrebbero mai trovato terreno comune – della serie: “mettono d’accordo un po’ tutti simil-Daft Punk” . Indian Wells è vissuto nella piena esplosione del fenomeno, a quali cause senti di ricondurre questa generale omogenizzazione di massa su piano mainstream?
Da una parte è moda e vedremo quanto durerà. Dall’altra anni fa ascoltare determinata musica era una sorta di presa di posizione, aveva un significato anche culturale e sociale, rappresentava qualcosa di più ampio. Ora invece è un modo spesso per sentirsi fighi, superiori, e per dire “aboliamo il suffragio universale”. L’omogeneizzazione c’è perché c’è in tutto il resto e in questo internet ,che all’inizio sembrava poterci offrire solo opportunità, è diventato lo strumento per eccellenza dell’omogeneizzazione, da come ci vestiamo a cosa mangiamo. Quindi è normale che si sia uniformato anche il gusto musicale in determinati contesti, i canali di informazione sono quelli. E’ un meccanismo perverso, non se ne esce.
Facciamo i fastidiosi. Cosa ti sta veramente sulle palle dell’industria musicale? Ormai sarai arrivato ad un punto che magari ti garantisce il tuo piccolo punto di osservazione sopraelevato, da qui quali meccanismi ti guastano la vista?
Sicuramente i tempi. Dal momento in cui crei qualcosa al momento in cui la vedrai pubblicata può passare anche più di un anno. A volte è davvero frustrante. E anche la libertà se vuoi, hai molti vincoli, paletti. E poi un certo “intorno” alla musica. Per carità capisco benissimo che certe cose siano necessarie, ma vedo in giro molta, moltissima fuffa.
…anche in virtù di questo (ma non necessariamente collegato), qual è il primo, vero e spassionato consiglio che daresti a chi è seriamente intenzionato a fare di questo il suo mestiere.
Anzitutto trovarsi un altro mestiere. Avere la libertà di poter dire “questo non lo faccio” perché non sei costretto a doverci pagare l’affitto. Almeno fin quando non riesci a vivere di quello che ti piace. Cosa che ovviamente auguro a tutti, ma siamo seri, in Italia per certa musica è davvero difficile.
Procediamo un po’ più introspettivi. È ragionevole aspettarsi che, una volta in studio, non tutto venga immediatamente da sé. Quali sono le muse di Indian Wells? Da dove deriva quel synth o perché quella cassa piuttosto che quell’altra? Una sola questione di stato d’animo coerente al mood del disco o ogni suono è un’esperienza reale tramutata in musica?
Guarda ho imparato che gli stati d’animo possono ingannare. Sicuramente esiste questa cosa che si chiama “Ispirazione” ed è poi la parte magica del tutto, ma non necessariamente un determinato stato d’animo può essere utile ai fini della composizione. Se sono nervoso o triste neanche più mi avvicino allo studio, cerco di evitare gli estremi. Penso serva sempre un po’ di lucidità. Poi è chiaro che le esperienze reali influenzano quello che fai, ma almeno per me avviene tutto a livello molto inconscio, sono fondamentalmente un malinconico e credo che questo venga fuori nelle cose che faccio, in modo del tutto naturale, non controllato, è “quello che sono” più di “come mi sento”.
Quando ti accorgi di aver ottenuto l’alchimia sonora che effettivamente desideravi? Ci riferiamo a quel momento in cui finalmente realizzi che “tutto è al suo posto”…
Mai, ahah!
Di solito dopo mesi o anni passati in studio a lavorare magari su un disco mollo per sfinimento, non di certo per soddisfazione. Trovo sempre molti difetti nelle cose che faccio, non sono mai pienamente soddisfatto. Sono anche consapevole però che rischierei di non combinare più nulla per cui in un certo momento devo metterci un punto.
Per contro, come lavori “razionalmente” sul raggiungimento di questo ordine?
Vale la risposta precedente?
Qualche consiglio per l’ascolto prima di lasciarci?
Certo, in ordine sparso: Alessandro Cortini (Forse 3), Earlham Mystics (il nuovo progetto di Luke Abbott), Bicep usciti da poco su Ninja Tune, Egisto Macchi (Il Deserto)