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“Ten Days of Blue” di John Beltran è un sogno tra introspezione e memoria.

C’era un’epoca in cui sperimentazione e avanguardia tracciavano le coordinate della scena elettronica, un’era di fervore tecnologico e di clubbing come rito collettivo, capace di fiorire in estetiche e movimenti in grado di scolpire il tempo.

Gli anni Novanta, con la loro alchimia di ritmi e visioni, hanno generato un flusso creativo seminale, una corrente di pensiero che continua a riverberarsi anche oggi, a distanza di tre decenni.

Col tempo, la febbrile ricerca di nuovi linguaggi si è frammentata in una moltitudine di sottoculture, micro-universi che conservano un’eredità di suggestioni ancora in mutazione e in grado di parlarci. Quando il pionierismo si intreccia con sprazzi di pura intuizione, possono nascere opere di assoluto rilievo.

“Ten Days of Blue”, secondo album dello statunitense John Beltran rilasciato su Peacefrog, ne è un perfetto esempio: una pietra miliare dell’ambient techno, che arriva dopo l’incantevole “Earth & Nightfall”, pubblicato su R&S, etichetta belga che ha dato i natali a figure come CJ Bolland e Model 500.

A soli ventisette anni, Beltran ridisegna i confini della dance music, destrutturandola in scenari sfumati e al contempo materici: divagazioni oniriche e paesaggi liquidi che spaziano dalla quiete profonda all’estasi meccanica del dancefloor, tra immersioni nell’inconscio di “Venim and Wonder” spiazzanti mantra cibernetici in “Flex”.

Già dal titolo, l’album trasmette una costante ma lieve malinconia, filtrata attraverso sì i codici del rave, ma anche da quello che sono state le sale chillout “Collage of Dreams”. Qui, entità bioniche mutano tra cunicoli di cristallo, in un elegante equilibrio tra ambient e Idm, evocando una sintesi inedita, come un Aphex Twin in un dialogo astrale con i fratelli D’Arcangelo in “Soft Summer”.

Accanto a questi mondi ultraterreni, emergono momenti di struggente delicatezza, in un lascito quasi new age intriso di nostalgia e stupore (“Guitaris Breeze”), dove il beat abbandona la texture sonora a favore di un raffinato gioco ritmico che rimanda alle trame del progressive.

La musica di Beltran oscilla tra minimalismo ed eclettismo, evocando paesaggi tropicali che si alternano con ascetica naturalezza alle foschie siderali di Detroit. Immaginare per un attimo che Derrick May decida di abbandonare il kick drum per abbracciare un cosmo di melodie polifoniche. Difficile individuare un vero apice, ma la title-track emerge nell’oscurità con un’aura di splendore, richiamando le gemme di Likemind Records (l’etichetta che ha ospitato le meraviglie di Nuron / Fugue), in un sussulto di bassline vellutate e guizzi percussivi sottomarini che sorreggono una melodia di archi sintetici, tanto fragile quanto ipnotica.

Non mancano pulsazioni più orientate verso il dancefloor, come “Deluge”, che si apre come un preludio a un viaggio onirico a occhi aperti, per poi dissolversi nella luminosità eterea di “December’s Tragedy”: una gemma di stampo Detroit trasfigurata secondo i canoni dell’Intelligent dance music. Anche qui, il battito non è scandito dalla cassa, ma da arpeggi e melodie che si intrecciano in trame evanescenti, pronte a dissolversi nella vastità del sogno.

Pochi debutti possiedono la stessa intensità dei primi lavori di John Beltran. Divenuto un classico, punto di riferimento per artisti e anime in danza, “Ten Days of Blue” è un’epifania sonora, un viaggio esistenziale tra speranza e contemplazione, un futuro immaginato attraverso le ombre della nostalgia.

Alessandro Giustiniano