Ci sono una quantità di elementi autobiografici, impliciti ed espliciti, all’interno di “In Vitro” di Luciano Lamanna. Il suo ultimo doppio LP è una tessitura di ritmi e timbri che ne descrivono la persona, o meglio che descrivono gli scenari che l’artista porta dentro.
“In Vitro” è il nome di un autoritratto sonoro, l’ultimo lavoro di Luciano Lamanna, artista da moltissimi anni attivo e ultimamente molto presente su Roma. Abbiamo avuto il piacere di ospitarlo su Parkett, dove ci ha raccontato le sue 10 tracce fondamentali (ascoltale QUI).
“In Vitro” racconta molto del suo immaginario ma anche della sua storia, nel senso di personale esperienza di vita, le diverse e rapide epoche musicali che ha visto e vissuto coi suoi occhi, negli anni tradotte in musica attraverso i suoi strumenti e la sua ricerca. Non mancano in questo LP le collaborazioni, con Eugenio Carìa (Saffronkeira), Luca T. Mai (Zu) e Manuel Mazzenga (Der Noir), le quali parlano anche loro del suo modo di vivere la musica abbracciando generi spesso molto diversi e tenuti insieme sempre da un filo rosso che alla fine non è altro che il suo emisfero destro – la parte creativa, istintiva, rivoluzionaria di Luciano Lamanna.
L’LP è stato rilasciato con la Multiple Records, una suddivisione della Subsound di Davide Cantone, specializzata in produzioni più sperimentali e avant-garde.
La Subsound è un’etichetta che tratta vari generi, con una certa prevalenza di produzioni più “acustiche”, che costituiscono la maggior parte dei rilasci, tutti o quasi molto ruvidi e sperimentali. C’è molta affinità per il suono sporco ed industriale, aggressivo e graffiante, ma soprattutto per l’esperimento. Non poteva avere caratteristiche migliori la label che avrebbe rilasciato “In Vitro”, LP che contiene tutte le caratteristiche elencate.
Le sonorità sono molto complesse, non c’è quasi nulla che potrebbe risultare diciamo più easy listening. Ciò non significa che il disco non sia fruibile, quanto piuttosto che richieda una certa attenzione e predisposizione. Probabilmente da un ascolto passivo, da sottofondo, non si riuscirebbe a trarre molto.
Tantomeno un ascolto da intrattenimento riuscirebbe a rendergli giustizia, in quanto non porta elementi di prevedibilità, nè è pervaso da un vero e proprio “groove”, se non nella title track dove si ha un ritmo chiaramente definito. Anche perchè siamo ben lontani dall’ambito di un disco da ballare o di qualsivoglia categoria che possa essere associata al dancefloor.
“In Vitro” è quindi un disco che non punta alle gambe, ma alla testa. Non è un disco facile e richiede la partecipazione di chi ascolta.
Come si accennava in apertura, c’è una forte componente autobiografica, e lo si vede innanzitutto dai titoli, soprattutto “Autoscatto” e “1977“. La prima è forse quella che più esplicitamente fa da specchio per l’artista, con un ritmo che va e viene tipo una risacca, un treno di impulsi riverberato, reso granulare che pervade i quasi otto minuti del brano.
Ad accompagnare, un suono rilassato ma sinistro, incessante e senza una cadenza con cui chiudere a riposo la sua frase, dato che di fatto non fraseggia, ma si tiene sospeso fino alla fine, sovrastato lentamente e inesorabilmente da un sempre più forte strato di suono che risale dal basso e copre i resti dei suoni sotto di lui. E’ un brano molto umorale, che potrebbe essere descritto come una sorta di fenomeno meteorologico interiore, di cielo che va ad annuvolarsi o di un’atmosfera che va mutando continuamente ma lentamente.
La seconda, “1977“, ha un’aria più cinematografica, più che un autoritratto assomiglia più a una sigla di testa, ma sempre con connotati autobiografici (1977 è l’anno di nascita di Luciano Lamanna), come se introducesse una colonna sonora della propria vita artistica. E’ il sassofono di Luca T. Mai, sax baritono degli Zu che qui, inconfondibile, ci regala sia il tema che brevi assoli e convulsi fraseggi – mentre Luciano Lamanna accompagna con suoni percussivi come fosse la sezione bassa degli archi o dei fiati.
E’ il brano più breve dell’album, ha un sapore orchestrale sebbene a suonare le sue parti siano in due. Questo avviene quando la palette sonora è completa e i singoli suoni hanno un ruolo limpido, una collocazione razionale, sebbene la razionalità è un concetto che difficilmente potrebbe essere nominato in un disco del genere, così tanto pervaso di noise, di modulazioni random e di quella sfumatura punk che non viene mai meno.
Molto interessante è anche Ramallah, traccia più ritmica con una vena orientale che viene da subito introdotta dal titolo. Vena che si presagisce piano piano durante il buildup, in cui una chitarra entra progressivamente da lontano insinuandosi come gas lacrimogeno: unico strumento acustico, effettato e reso tridimensionale fino a somigliare al richiamo di un muezzin dal minareto, richiamo che sentiamo pervadere tutta la città senza poter localizzare una sorgente univoca, che pare rimbalzare di moschea in moschea. La base ritmica a metà tra il percussivo e il sonoro, con una distorsione dosata per confondere e conferire questo timbro ibrido, ci ricorda alcune esperienze a la Muslimgauze.
La fatalista “Everything Shall Die in the End” fa il paio con “I Wish I Could See the Apocalypse“. Fanno sentir male. Male fisico, la colonna sonora perfetta per la perdita di organicità. L’Apocalisse è una fine-rivelazione, un cambio di epoca, il passaggio dal naturale all’artificiale, dal grembo materno alla nascita “In Vitro” – per l’appunto, ed ecco un possibile collegamento tra l’autoritratto di cui si parla, il titolo stesso dell’EP, e lo sguardo sul mondo che non manca in un artista che fa il suo mestiere di artista, cioè di interprete, creatore e distruttore.
Questa apocalisse che merita di essere vista è auspicata come una catartica fine necessaria di tutto, un annerimento che avvolge completamente il mondo, la caduta, o la fine della caduta, la polvere, la cenere, il carbone, il rumore, un momento di morte doveroso, preparatorio se c’è voglia di liberarsi. “I Wish I Could See the Apocalypse” ci è sembrato tra i due il brano più intenso e carico di personalità.
Una faticosa ninna nanna, non nel senso che annoia, ma nel senso che pare cantare un saluto al mondo, un incoraggiamento a spegnersi, dove il modulare di Luciano Lamanna passa ciclicamente dal rumore puro al melodico, e pare raccogliere le sue ultime forze per emettere un guaito, il lamento a metà tra l’animale e l’artificiale di una qualche entità ferita – forse lo strumento stesso che cerca in tutti i modi di rimanere in vita, come se fosse danneggiato dall’ondata di distruzione che ha appena visto. Forse un passaggio più che un necrologio, un nero alchemico, per dirla con James Hillman un nero non come paradigma ma come distruttore di paradigmi.
La title track è l’ultima, una sorta di calma dopo la tempesta. Il titolo, così importante, e la collocazione del brano paiono infatti suggerire l’incubazione di qualcosa di nuovo, qualcosa che verrà, una nascita in laboratorio – luogo contemporaneamente di lavoro, di esperimento e di gestazione. Quindi la riuscita dell’apocalisse tanto attesa, il poter mettere le mani su nuove formule, su territori nuovi, sul post-umano.
Potete ascoltarlo qui, dalla pagina Bandcamp della Multiple Records
Paolo Castelluccio