Oggi su My Zone vi presentiamo John Bringwolves, un artista eclettico che ha fatto della sperimentazione e dell’esplorazione il suo marchio di fabbrica.
Giovanni Portaluppi, in arte John Bringwolves, è un artista che sin dalla giovane età è entrato in contatto con differenti generi e proposte musicali. All’età di 6 anni, insieme ad altri 40 percussionisti, si esibisce con il progetto Tum Tribù e a 12 anni inizia a studiare chitarra elettrica avvicinandosi a sonorità blues, funk e rock.
Nel 2010 entra a far parte della band Entropia con cui calca importantissimi palcoscenici come quello dell’Heineken Jammin’ Festival e del Collisioni Festival, vincendo il Tour Music Festival di Roma nel 2013 e classificandosi come finalista alle selezioni dell’edizione del 2016 di X-Factor.
Nel 2017 John Bringwolves decide di avvicinarsi alla musica elettronica, sperimentando l’interazione tra chitarra e scratch. La scoperta della produzione di musica elettronica su Ipad lo porta ad approfondire le tecniche di mixing e di scrittura musicale: in questo periodo la sua attenzione si focalizza in modo ossessivo sulle sonorità proposte da artisti come Four Tet, Jamie XX, Burial, Romare, Kalabrese e Aphex Twin, da cui rimarrà fortemente influenzato.
I live set di John Bringwolves si caratterizzano per il mix di drum machines uptempo, chitarre funky-blues e sintetizzatori ambient-electro, creando dei veri e propri percorsi sonori che catturano l’attenzione e accompagnano l’ascoltatore all’interno di una dimensione coinvolgente e onirica.
Con l’uscita del suo primo Ep “Fake to Say” nel 2020 e del suo album “Sassy Goose” nel 2021, John dimostra la sua maturità compositiva e il suo grande talento; per questo motivo abbiamo deciso di fare due chiacchiere con lui in questo nuovo episodio di My Zone e proporvi in esclusiva i suo live set registrato per Parkett.
Quando e come ti sei avvicinato al mondo della musica? E a quello della musica elettronica?
Mi sono avvicinato grazie ai miei genitori. C’è sempre stata musica in casa e cantavo con mio nonno in macchina. Ho iniziato poi a suonare la batteria a sei anni e da lì ho iniziato a suonare con altri, innamorandomi dell’atmosfera che si crea quando viene condivisa con una o più persone.
Proprio in quel periodo, il mio insegnante di batteria aveva fondato una compagnia formata da una cinquantina di elementi di tutte le età e da quel momento mi sono focalizzato sulla parte ritmica; anzi, della ritmica condivisa: sembrava quasi un rituale, tutti insieme a seguire lo stesso flusso e suonando quello che capitava. Strumenti costruiti da noi, bidoni di metallo della benzina, assi di legno, zucche vuote immerse in acqua. Dopo questa esperienza collettiva, verso i quattordici, ho iniziato a suonare la chitarra invece in una band pop-rock con formazione classica di 4 elementi.
La chitarra classica, acustica o elettrica è sicuramente lo strumento per cui ho perso la testa, iniziando a nutrire un attaccamento quasi fisico. È stato quello il momento in cui ho scoperto meglio il mondo delle note, dell’armonia e delle canzoni. Fortunatamente con un approccio molto ad orecchio, unito all’esperienza pregressa del ritmo, ho capito che era lo strumento con cui mi esprimevo al meglio. La band è durata sei anni ed è in questo periodo che ho iniziato a suonare molto live.
Poi, come in tutte le band emergenti, ad un certo punto abbiamo avuto diverse visioni e gusti che si sono sempre più allontanati. Così ho lasciato il gruppo ed è iniziato verso la musica elettronica. Come dal ritmo sono passato alle note con la chitarra, sentivo a quel punto il bisogno di sperimentare ancora unendo anche il mondo dei suoni digitali. È stato un passaggio naturale e piuttosto veloce.
Ero rimasto sbalordito da come produrre musica con un computer potesse essere la soluzione più veloce per dare forma alle mie idee, unendo le parti acustiche più melodiche di chitarra o pianoforte, alla parte ritmica elettronica.
Quali sono gli artisti che hanno maggiormente influenzato la tua crescita personale?
Ti direi sicuramente Ray Charles, Billie Holiday, Cat Stevens, Radiohead, Queens of the Stonage, Keith Jarrett, John Frusciante, Demon Albarn, Four tet, Jack White, Johnny Mitchell, Cesaria Evora, Amy Winehouse, troppi, me ne stanno venendo in mente troppi…
Quando ascolto la tua musica, noto che contiene un tocco autobiografico e uno ironico, elementi che la contraddistinguono da altre proposte e che hanno attirato la mia attenzione. Come nasce il processo di scrittura delle tue tracce?
Solitamente parto da un’improvvisazione di chitarra o piano. Poi stendo la parte ritmica. Quando ho trovato l’equilibrio, lascio andare le due parti assieme a loop, improvviso la parte vocale che sia in armonia con la base inizialmente anche senza significato con versi. E quando penso al messaggio da dare con il testo, anche se breve, cerco o di esprimere l’emozione del momento oppure, altre volte, mi piace proprio giocare sullo sdrammatizzare e alleggerire la parte musicale con un vocal più ironico.
Mi piace che i vocal siano sintetici. Non testi descrittivi lunghi e narrativi. Preferisco frasi che raccontano qualcosa, messaggi diretti, le variazioni sono molto musicali più che testuali. Forse ho un approccio testuale che ha più in comune con il copywriting pubblicitario che con i testi di un cantautore. Con questi brevi incastri di parole mi piace intervallare elementi intimi e altri impersonali e più universali.
Una volta che ho trovato l’incastro di parole che funziona mi piace risentirlo e ripeterlo: quasi come un mantra durante la traccia. Poi questi testi brevi e ripetitivi e molto spesso ritmici derivano dal fatto che all’inizio campionavo parti vocali di altri dischi, registrazioni del telefono o parlati trovati su You Tube, quindi quando ho iniziato a cantare ho cercato di crearmi da me, i sample che prima mi sarei andato a cercare altrove.
Mi sembra che il tuo album si distanzi un po’ dal precedente Ep “Fake to Say”, dove noto maggiormente l’influenza di sonorità provenienti dal Sud America e, in particolare, dalla discografia di Nicholas Jaar. Dopo essere passato per questa tappa, come sei riuscito a cambiare direzione e tornare nella sperimentazione più libera che ho ritrovato – piacevolmente – in “Sassy Goose”?
In realtà non ho programmato la direzione di arrangiamento musicale dell’EP , è stato il primo lavoro pubblicato, è uscito così. Abbastanza spontaneo e diretto senza pensarci molto. Semplicemente è frutto del periodo che vivevo ed effettivamente ci hai preso perché alcune tracce dell’EP le ho scritte dopo un viaggio in Cile e Nicholas Jaar, in effetti, è un nome che aggiungerei alla lista della seconda domanda perché quando l’ho scoperto, per molti aspetti, mi ha cambiato la visione di far musica.
Sassy Goose invece, è un album che ho scritto in un periodo diverso, in cui ero fisso a Torino, con la piena pandemia (zona rossa, zona bianca, zona rossa) e mi sono ritrovato a scrivere le canzoni senza suonarle dal vivo, in studio. È un mix tra alcune sezioni di tracce vecchie e altre nate quest’anno. Mi sono divertito a unire diverse sonorità in Sassy Goose, rimanendo però sempre concentrato sul mantenere un filone unico e, a volte, per farlo chiudevo gli occhi, immaginando di essere nello stesso deserto o nella stessa giungla.
Dal punto di vista tecnico ho avuto anche la possibilità di lavorare in studio con Simone Squillario, Marco Gentile e Filippo Quaglia che mi hanno aiutato molto nella fase di chiusura di ogni traccia, pulizia dei suoni e strutture. Mi è piaciuto molto che la fase di chiusura sia stata condivisa, non mi sono sentito da solo e sono venute fuori molte idee in corso d’opera che hanno migliorato diverse tracce. Insomma, in totale solitudine la parte di creazione poi invece condivisa la stesura finale lavorando sulle strutture insieme a loro.
Questo passaggio mi è piaciuto molto e siamo riusciti a creare un progetto unico nonostante io avessi sperimentato molto. Ho usato un sacco di chitarre diverse, le percussioni suonate dal vivo utilizzando anche degli oggetti, alcuni vocal erano messaggi vocali, alcuni suoni d’ambiente registrati a Torino, etc.. E poi il pianoforte acustico a mezzacoda scordato, la Tr8s e la Yamaha Reface Cp che prima non avevo.
Cosa ti ha portato a scrivere un album dopo aver pubblicato solamente un EP? Cosa significa per te quest’album?
L’EP è stato il primo esperimento che è nato proprio in concomitanza con la quarantena e l’idea era quella di raccontare – come se fosse un diario – l’esperienza collettiva della pandemia e le esperienze che si provavano. Sassy Goose invece è un lavoro più intimo in cui ho mostrato la mia concezione di musica. Se nell’EP ero ancora timido, l’album è stata l’occasione per mostrare i miei mondi sonori, avendo più minutaggio. Penso sia più intimo, più inmersivo, ma forse è solo una mia percezione.
Sono stato però meno concentrato sulla potenza delle singole tracce da lanciare come singoli, avevo più tempo per inserire cose più morbide, parti più lunghe e più sperimentali. Sassy Goose per me è stato fondamentalmente uno sfogo. Mi ha fatto pensare molto alla situazione surreale che ho/abbiamo vissuto e allo stesso tempo mi ha ha fatto non pensare a nulla, staccare da tutto quando volevo estraniarmi.
Mi è piaciuto il vivere le giornate e poi immergermi di notte nella creazione di questo mondo parallelo desertico; con quest’oca che si aggirava e questi vari simboli o luoghi onirici, l’artwork è proprio quello che cercavo di immaginarmi mentre producevo.
In questo scenario visivo, il mio intento primario è stato quello di raccontare un anno particolare, pieno di alti e bassi, delusioni, soddisfazioni pazzesche, incontri, perdite, ritrovamenti di oggetti, spazi nuovi e tante feste in casa sul divano. Un anno terribilmente speciale, unico nella sua evoluzione e terribilmente ricco di cambiamenti come fossero 5 in 1.
Raccontare queste fasi mi ha ogni volta sprigionato un’eco proiettato al passato. Non so perché realmente. Sono ancora molto confuso sulle fasi che ho vissuto e voluto raccontare e, in definitiva, non mi ha chiarito lo sviluppo cronologico del 2020/2021 ma anzi me l’ha alterato ancora di più! La cosa più divertente e più stimolante però è stata realizzare, mentre prendeva forma, che avevo trovato un linguaggio tra musica e parole con cui sono riuscito a esprimermi sentendomi totalmente a mio agio e sincero.
So che sei molto attratto anche dalle arti visive: pensi di includerle maggiormente nel tuo progetto artistico in un futuro prossimo?
Sì, forse devo ammettere che sono molto più attratto dal trovare nuove soluzioni visive da accostare alla musica e sono in continua ricerca di collaborazioni con l’arte visiva si altri. Mi piace giocare e usare la grafica come estensione, spesso ironica, dell’ambiente musicale e della discografia.
Quest’anno ho lavorato con diverse persone per trovare soluzioni d’immagine che calzassero perfettamente sulle atmosfere sonore. Come Davide Robaldo per l’artwork dei singoli e del live, Giacomo Clemente ha curato il lettering, Afra Zamara ha diretto i videoclip e Simone Di Pietro la parte fotografica. Ora sto lavorando alla creazione di un racconto visivo anche per il live che non vedo l’ora di testare.
Qual è il tuo setup ideale per lo studio?
Chitarra, percussioni di tutti i tipi, pianoforte, Ableton Push 2, Yamaha Reface, TR8S, dread box erebus microkorg.
Per quanto riguarda i live invece?
Gli stessi strumenti tranne il pianoforte che pesa e ingombra troppo, fosse pieghevole me lo porterei.
Cosa proponi quest’oggi ai nostri lettori?
Oggi vi presento una parte del mio nuovo live set che sto, finalmente, portando in giro!