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“Influenze elettroniche incrociano temi post-rock, industrial, paesaggi aperti tra l’ambient e il progressive in un’unica visione lo-fi”.
Sono le stesse parole con cui Filiberto, founder e unico anello cui si riconduce il progetto in questione, ha usato vestire l’ideologia e il simbolismo musicale di quella creatura che stiamo imparando a conoscere come Flares On Film.

Con il caso Flares On Film non è la prima volta che decidiamo di riservare spazio a quanto è stato già esplicitamente elogiato quale, riassumendo, un connubio di arti dalla grande aspettativa, non solo in virtù di una formazione individuale, ma anche se non addirittura soprattutto, di un generale capitale collettivo di musicalità.

Nato dalle radici degli EVA e dai loro modesti ma ragguardevoli traguardi (miglior gruppo nel concorso bandito dal Saint Rock Festival, settimo posto nella classifica dei migliori brani indipendenti con la traccia “Nothing Seems To Change”) il progetto Flares On Film emerge dallo storico consolidato ma è coeso nell’esigenza di un semi-radicale rinnovo; una sorta di restauro che non scartavetri via la formula originale, tipicamente acustica-strumentale tra l’altro, pregiandosi invece di un’attitudine conservativo-integrativa.
Questo modus, propedeutico ai fini e all’essenzialità creativa della musicalità Flares On Film, lo si rintraccia tra le note di una escalation elettronica molto seducente e coerente alla sua anima più fiabesca e narrativa: c’è quel cantautorato infatti, che bilanciato nella proporzione in cui si riservi dal predominare sulla dimensione analogica, lascia a trasparire una tavolozza dalla profonda suggestione emotiva.
Quel forte sapore combinato di SynthWave, chill, acustica e downtempo trova poi sua organica computazione con il primo long-player intitolato “Happy Ending” – è sempre un finale veramente felice quando un musicista vede concretizzarsi il suo immaginario di crossover, un’espressione obiettivamente molto più complessa della sola elettronica, dalla sola Indie o del solo-quello. 

Distorsioni e stirature che non possono non tenere conto di un esatto rigore strumentale. Come ha fatto il progetto Flares On Film a trovare, e conseguentemente, ad alimentare la sua identità?

Il concetto di identità, volendolo semplificare moltissimo, potremmo dividerlo e pensarlo fra due poli opposti. Da una parte c’è l’Altro fuori di noi che ci dice chi siamo, come un’immagine allo specchio che ci restituisce un’identità estetica e ortopedica. Un feedback, uno sguardo che ci costituisce e ci contiene. In altre parole, chi ascolta ci definisce, e questo è inevitabile.
Al suo opposto, invece, c’è la sensazione interna, una sorta di propriocezione che non ci dice niente a livello fenomenico, ma ci fa sentire, ci fa abitare l’essenza di noi stessi.
Chiaro che entrambe le modalità sono imprescindibili e interconnesse. L’identità di una band, di una sonorità, o addirittura di una persona si trova tutta nella posizione, il nostro punto di vista per intenderci, il luogo da cui ci osserviamo e ci pensiamo. Dipende da dove ti senti di stare, dipende dal motivo per cui fai musica, dipende banalmente sei ci sei o se ci fai. Io personalmente ho sempre fatto per il fare, e non tirerò in ballo poteri catartici, liberatori o curatrici della musica. Fare musica è un fare ed è l’unica cosa che posso fare, non credo di aver mai scelto e non credo di avere scelta.
In questo momento ho anche scelto di far remixare alcuni brani futuri, del prossimo album in uscita, farli rivisitare, o addirittura risuonare, ricantare.

Sono curioso. Voglio ascoltare me stesso raccontato da altri. Ora, tornando al discorso di apertura sono dall’altro lato dello specchio, sono un’immagine riflessa che mi fa riflettere su di me.

Posto che, i canoni di un’estetica musicale a modello di tutta la categoria, esistono ma sono di determinazione incredibilmente difficile – per tutta una serie di fattori che non stiamo qui a ricordare – nella ricerca del suddetto prototipo, quali sono le linee guida fondamentali? Contando soprattutto il fatto che quella stessa musicalità trova spazio su più binari di contaminazione…

Le linee guida sono molto semplici, oggi faccio così: scelgo un sound, scelgo degli strumenti musicali e ci lavoro su. A volte ci sono dei pezzi già abbozzati chitarra e voce, altre volte giocando fra i synth e le varie macchine, scrivo pezzi di canzoni e magari poi ci canto su. Altre ancora ci sono delle note vocali registrate sul telefono e canticchiate per strada.
Scelgo un’identità, un concept per i testi per dare un’uniformità al messaggio, perché sì, sono un po’ all’antica e secondo me i brani devono anche dire qualcosa di sensato.
Sono dell’idea che una buona canzone debba avere il potere di essere ricordata, di essere semplice e magari riproducibile. Il suono quando è bello è una goduria, per chi lo ascolta e anche per chi lo crea, ma non lo si può canticchiare fermo ad un semaforo o sotto la doccia. Canteremo sempre note. E che ci piaccia o no, la musica è ancora qualcosa che va ricordata.
Il primo album, invece, HAPPY ENDING, come tu stesso dicevi, ha un sound che secondo me è a metà strada fra gli anni ’90 e qualcosina di più moderno. Onestamente durante la sua elaborazione non avevo le idee molto chiare e ho lasciato che i brani scegliessero i propri abiti da sé. Alla fine, come spesso accade, quel disco è una foto di quel momento, e di quel momento ci parla: la stanza che ho usato per registrare, i microfoni le tastiere o addirittura il software, gli amici che mi sono venuti a trovare e che in parte hanno preso parte alla registrazione. È una cartolina dal mio passato.
Questa volta invece, ho scelto di scegliere e quasi niente verrà lasciato libero. C’è un concept molto preciso alla base, l’ingeuità, infatti si chiamerà NAIVE SONGS. Ho scelto i suoni e gli strumenti prima delle canzoni stesse. E pensa, che addirittura ho scelto di metterci solo qualche chitarra acustica e ricordiamoci che sono chitarrista. Sto esplorando suoni e ambientazioni più esplicitamente anni 80 o più vicini alla moderna synthwave.

5 brani che hanno contribuito considerevolmente alle sonorità che portano la firma Flares On Film.

Robert Fripp e Brian Eno – Evening Star

AIR – The Way You Look Tonight

Pink Floyd – Obscured by clouds

Technodelic – Light in darkness

Beck – Hotwax

Tra le infinite proporzioni dell’elettronica Made In Italy, come credi che la tua musica vada a catalogarsi? Non tanto in termini di genere, piuttosto, quell’idea reputazionale che qualunque addetto del settore andrebbe a formularsi.

Questa è una domanda difficile. Premetto che in questo momento storico c’è tantissima musica in giro e moltissima della quale è fatta anche molto bene. Ma è troppa, infatti siamo tornati, mai come prima ad ascoltare dischi molto vecchi.
Piuttosto c’è da chiedersi cosa rimarrà l’anno prossimo di quello che oggi suona e ascoltiamo. L’industria musicale è decaduta e il commercio è diventato più spietato e meno sperimentale, meno coraggioso. Pertanto, in questo momento c’è da riconoscere, che, e addirittura cito me stesso: “Io appartengo al nulla, come tutti e come tutto, io non sono niente […] Io appartengo al mondo intero, non temo nulla, io sono qualsiasi cosa”.
Cosa penseranno gli altri di me e della mia musica, quale reputazione avrò, come tu dici, oggi non conta più niente. Se qualcuno ascolta, se qualcuno mi pensa o mi reputa, sarà sempre un regalo, sarà sempre qualcosa di inaspettato. Che ci piaccia o no, continuerò a fare musica sempre e solo per il fare, per il piacere di farla, di suonarla, di tendere verso.