Ripercorrendo musica e pensieri, siamo arrivati direttamente a scambiare qualche parola con l’uomo dietro la maschera più caleidoscopica, polimorfa ed ammaliante; piccola e vera rivelazione di questa primavera 2017.
Prima di tutto; Chi è Howe? Una tipica domanda facile-facile che comporta una risposta decisamente complessa, ci verrebbe da dire.
Addirittura, lo stimolo che quasi viene a proporsi automaticamente non è tanto il “chi sia” ma “cos’è”; non di chi stiamo parlando, ma di cosa.
Riproviamo allora.
Cos’è Howe?
Fondamentalmente, e in via molto elementare ed esemplificata; Howe è il progetto solista di un musicista ignoto occultato dietro una maschera inespressiva che, più che tale, preferirebbe definirsi un “cantastorie”; un romantico bardo dei nostri tempi che ad arpe e chitarre ha sostituito sintetizzatori e pad. Almeno, questo è quello che vedreste sul palco.
Ma se nell’interpretazione, partissimo dall’ascolto del suo lavoro in studio, ci accorgeremmo che così come sarebbe lecito aspettarsi una sola persona dietro tutta la produzione, varrebbe anche immaginarne due, una band o un’intera mini-orchestra di compositori.
Abbiamo fissato un punto molto importante allora: Howe è tutto ciò che noi crediamo possa essere, un racconto, una poesia, un ricordo o/e un’immagine, tutto questo anche simultaneamente. Non esistono univoche parafrasi, vi è solo un genuino intento di “provocazione”, una provocazione dalla tipicità più pura e benevola; è una porta ai ricordi e all’immaginazione tra le ramificazioni di una sincera filosofia con fini ontologici.
A dover di cronaca, è possibile che molti di voi ora intenti a leggere queste parole, l’uomo dietro la maschera l’abbiano già conosciuto infinite volte; di lui infatti ne è curioso soprattutto il background artistico da cui proviene. Ci spieghiamo meglio…
Avete presente quando, fino a qualche anno fa (e non solo) le TopTen di Beatport – tra le charts Tech House e/o Deep House – erano intasate dei prodotti ad alto consumo firmati Defected, Snatch!, e vari associati? Ecco, il nostro protagonista proviene da lì e ci è rimasto fino al punto critico di rottura in cui:
“Strutture fisse, 16 battute di intro, 4 di bridge, utilizza il synth che ora va di moda, i sample che adesso tirano, stai nei 6 -7 minuti, chiudi con solo kick. Ero sinceramente stufo. Perciò molto liberamente e volontariamente sordo ad ogni disco che usciva e che andava in quel periodo ho acceso il pianoforte e iniziato a giocare con il computer, i sample, i synth. Il risultato è quello che sentite”.
Buffo no?! Quando la carrozza era nel pieno della sua portanza (economica e non), qualcuno decide deliberatamente di scenderci chiamato da quella che potremmo definire a tutti gli effetti una coscienza ed un’integrità artistica alla propria “intima” vocazione.
Da qui poi, a “Don’t Step On The Snails” – quelle lumache che sono i sogni di chi con tanto sforzo prova a raggiungere il suo traguardo, il passo è stato breve, impetuoso ed immediato. Un po’ Ambient, un po’ Post-Rock, un po’ Electro, un po’ Cloud; c’è di tutto, tutto perfettamente coerente a se stesso in un magnifico prodotto di piena libertà espressiva e svincolata da qualunque maliziosa esigenza di mercato. Unico tratto particolarmente ricorrente per tutto il long player sono note alte di strumenti quali gran piano e simil-xilofoni (acustici e non), elementi che danno quel tipicissimo carattere sognante e fanciullesco, gli stessi di cui l’intero progetto Howe è impregnato.
Pubblicato il 26 Maggio di quest’anno da Lole Records, etichetta indipendente con base bergamasca, è corredato inoltre da due video-clip “ufficiali” diretti dallo stesso artista: quello sulla base di Lole, e il secondo presentato qui di seguito, montato sui suoni di Postalgie.
All’incirca due anni fa, tal Joel Thomas Zimmerman, sicuramente meglio noto come Deadmau5, azzardò con incredibile fiducia l’implosione della EDM-bolla – roba di sola CO2, contenuti musicali casinisti e addobbi fluo su qualche concentrato di testosterone; un affare speculativo che a suo avviso, già all’epoca dell’allora valutazione, manifestava gli inconfondibili sintomi di un irrimediabile cedimento: quel “castello di carte”, come usò appellarlo Fatboy-Slim in occasione di un’intervista rilasciata per THUMP nel 2015, ormai è giunto a ridosso della fase discendente di un ipotetico ciclo vitale. A distanza di qualche anno, nulla si è dimostrato più vero. Ma se in realtà fosse solo cambiata la forma? In altre parole: se adesso siano i più cinematografici spot ibicienchi a fare le veci degli ultra-holliwoodiani festival statunitensi?
Sono d’accordo. Pero’ consideriamo anche che il fenomeno edm degli USA è stato veloce nell’esplosione quanto nell’implosione, quello a cui si assiste ora nell’isola iberica è solo uno tra i tanti che interessa e ha interessato Ibiza negli ultimi 30-40 anni. La Isla ha sicuramente subito un mutamento di direzione, una perdita di sacralità. E’ stata fagocitata da una fruizione di massa che poco ha che vedere con quello che chiamerei il “clubbing old school”.
Meno di una decina di anni fa, come tanti tra i ragazzi che volevano intraprendere la carriera di DJ, facevo il pr per una discoteca locale. Inutile aggiungere che questo lavoro era subordinato al poter “mettere i dischi”. Stavo proponendo ad un amico di partecipare alla serata del locale dove avrebbe suonato “inserire-nome-di-dj-underground-ma-non-troppo”, non ho fatto neanche in tempo a finire la frase che l’amico mi interrompe dicendo: “Ah! Suona tizio, grandissimo!” manifestando un entusiasmo esagerato. Mi fermo e replico: “Fantastico, allora lo conosci!” e lui risponde “No, però mi han detto che spacca”.
Non voglio sembrare purista o fare l’Anacleto della situazione, ma il fenomeno EDM non dista più anni luce da quello del pop mainstream. Anzi, più va avanti più gli somiglia sempre di più e a volte ci fa anche l’amore. Se anni fa mi avessero detto che prima le ragazzine si sarebbero messe a cantare Sky and Sand e poi avrei sentito in radio un basso sincopato come quello delle produzioni di Rovazzi avrei detto “Voi siete completamente in aria”.
In base a quanto è stato di tuo giudizio, maschera e pseudonimo sono le uniche vie per una possibile “redenzione” dal sistema o esiste una meno radicale espressione di rovescio?
In realtà preferirei non venisse letto come atteggiamento radicale di rottura e di rifiuto. Spesso mi sono interrogato sul ruolo che ciascun “attore” ha nel mondo dell’espressione artistica e sulle “catene” dettate da regole, stilemi, modus-operandi che inevitabilmente si vede costruire addosso, (o si costruisce da solo inevitabilmente). La maschera è un artificio che cela e nello stesso tempo può veicolare qualcosa di più della personalità di un individuo. Lo sapevano bene artisti come Magritte, il suo uomo con la bombetta, o Picasso con le sue maschere africane, De Chirico e i suoi manichini metafisici. Espressioni mute, guide, archetipi emblemi di dimensioni nascoste e parallele. In ogni caso simboli di ricerca incessante di identità.
Oltretutto viviamo anche un momento dello sviluppo dell’uomo tecnologico 2.0 che ha inciso profondamente anche nel mondo della musica: la personalizzazione esasperata dell’artista che sovrasta la materia musicale creando uno sterile voyeurismo estetico. La maschera la vedo quindi come un anestetico contro questo fenomeno.
Il non avere una identità ben definita, infine, è legato al progetto ‘Howe’ (come l’ho sempre inteso), che potrebbe evolversi nel tempo e diventare due, tre, infinite unità che collaborano al risultato finale. Anzi,abbiamo già cominciato…
Ripensando al punto di inversione, drastico quanto può esser stato, avevi già un’idea chiara di quello che avresti voluto intraprendere l’esatto momento successivo? Howe è stata la causa o la conseguenza di questo nuovo capitolo?
Howe è il luogo dove ho voluto e voglio far convogliare la fame della creazione.
Dentro di me avevo un’idea piuttosto chiara anche se non ero completamente conscio delle possibilità che avrei avuto facendo dialogare diversi linguaggi. Quando parli o anche solo mastichi due o più lingue, prima o poi ti ritrovi a pronunciare una frase in una lingua e ad aggiungere un termine in un altra. Prima che nascesse Howe io mi sentivo limitato nel doverne parlare solo una dato che ci sono lingue “conservatrici”, che non ammettono prestiti o non ne ammettono troppi.
Io immagino una babele musicale, l’inglese è un mix di techno e derivati, l’italiano la classica, i dialetti africani il jazz, magari l’ambient è il francese. Certo, se non vengono diretti è un casino ma se riesci nell’arduo compito ottieni l’insperabile. Io non ci sono ancora riuscito del tutto ma è quello che ambiziosamente vorrei raggiungere.
Una cosa sicuramente non avevo preventivato. E cioè l’arrangiare i miei brani per una band, che è quello a cui sto lavorando adesso.