Paride Saraceni è il primo ospite del 2023 della nostra rubrica My Zone e si racconta dopo la release del suo ultimo Ep “Uncaged”.
Paride Saraceni è il nostro ospite di oggi su My Zone. L’artista, che vive da diverso tempo a Londra, ha realizzato a fine anno con l’Ep “Uncaged”, un saggio sul suo sound così intenso e profondo che negli ultimi anni ha catturato l’attenzione della scena internazionale.
Le sue produzioni raccontano un universo ricco di suggestioni, in cui la personalità artistica di Paride emerge con forza, arricchendosi ed evolvendosi ogni giorno di più. Attraverso l’introspezione ed un lavoro molto profondo su stesso, Paride ha costruito un sound riconoscibile e d’impatto.
Ne abbiamo parlato direttamente con Paride Saraceni. Buona lettura!
Ciao Paride, Benvenuto su Parkett. Vorrei iniziare chiedendoti in che parte del mondo ti trovi in questo momento e che anno è stato per te il 2022.
Ciao, grazie per avermi qui. Mi trovo in Italia in questo momento e il 2022 per me è stato decisamente un anno di scoperte e crescita personale.
Sei nato in Italia ma ti sei trasferito a Londra. Che ruolo ha avuto la capitale britannica nella tua formazione musicale e nel tuo approccio al clubbing?
Sono nato a Vasto, in Abruzzo, e attualmente vivo a Londra, ma in realtà la mia formazione musicale nasce in Svizzera, fra Ginevra e Losanna, dove mi spostai quando avevo 13 anni per via di una proposta lavorativa che mia madre ricevette. Lo spostamento e il cambio di vita fu per me un enorme trauma, poiché venendo da un contesto italiano con tanti amici, mi ritrovai d’un tratto in un luogo completamente nuovo, freddo e remoto, dove non conoscevo e non potevo comunicare con nessuno, se non con mia sorella e mia madre. Fu durissimo ambientarsi e rimossi gran parte di quel periodo; ma guardando indietro e considerando le difficoltà che la mia famiglia stava attraversando in Italia, quell’offerta di lavoro per mia madre fu la miglior cosa che ci potesse capitare.
Malgrado le difficoltà, fu lì che nei pomeriggi in solitudine dopo la scuola, grazie ai videogiochi (ma anche anche alla web-radio di M2O che mi manteneva collegato con l’Italia), scoprii il mondo della musica e successivamente del clubbing. Affascinato dalla figura del DJ e dalla movida notturna, la mia missione al tempo (circa 2006-07) era quella di importare in Svizzera le sonorità Minimal che sentivo nei party italiani in quel periodo.
E così, dotato di un sound completamente diverso da ciò che veniva proposto in zona, iniziai a farmi notare e a suonare in locali fra Ginevra e Losanna. Subito dopo iniziai a interessarmi anche alla produzione. Mi spostai a Londra nel 2010 per studiare Architettura e appena arrivato entrai subito in contatto con alcuni promoters (italiani) della città, i quali vedendo le mie produzioni presenziare nei set di alcuni grandi artisti iniziarono ad inserirmi nelle line up dei loro eventi nelle Warehouse in East London ed a Southwark. Successivamente iniziai a collaborare con Monika Kruse, Christian Smith, Maya Jane Coles e il suo fantastico team, così come il team di Adam Beyer e Drumcode, e da lì la mia storia da studente di giorno e bedroom DJ di notte iniziò a prendere una direzione un po’ più seria.
La tua figura rappresenta perfettamente l’intersezione multidisciplinare tra arte e musica, costruendo un approccio fluido in cui la creatività viene vista come un’operazione completa-Come hai creato la tua personale estetica creativa e come convivono le tue differenti formazioni (quella da musicista, da designer 3d e da architetto?
Ho sempre percepito la musica in termini di ambiente, spazio ed elementi che ne fanno parte. Essendo sinesteta, la percezione delle “forme” musicali è sempre stato un drive molto forte nella composizione musicale e nella collocazione dei suoni in uno spettro spaziale, avendone una percezione “visiva” molto vivida. Sin dall’età di quindici anni iniziai a giocare con vari software 3D con l’intenzione di sviluppare un videogame. Non avrei mai immaginato che la dimestichezza nell’operare con tali software 3D mi sarebbe tornata utile diversi anni dopo, alla fine dei miei studi, appunto nell’ambito dell’architettura ed interior design, che ho sempre portato avanti in tandem con la mia produzione musicale e touring.
Il fatto è che io non ho mai trovato nette distinzioni fra queste discipline, se non nel format di riproduzione e nei sensi per interagirvi: sia la musica che il design o l’architettura (e la loro riproduzione digitale 3D) non sono altro che scelte di elementi in uno spazio con l’intento di creare un’interazione e una reazione sia fisica che emotiva. In questo momento sto sviluppando un’interfaccia che possa fondere l’estetica sonora con quella visiva 3D in maniera simultanea e generativa, accessibile per mezzo della Realtà Aumentata (tecnologia che prevedo essere fra le più importanti del secolo).
È ancora presto per svelare progressi, ma l’idea è quella di creare un nuovo continuum, una disciplina artistica che unisca queste dimensioni simultaneamente ed integralmente. In tutto ciò la dancefloor ne sarà sicuramente un testing ground.
Nella tua musica, Paride, vi è un forte focus sui contrasti sonori ed emotivi. Come riesci a calibrare elementi differenti nella tua musica e trovare un equilibrio tra le parti?
Come dicevo prima, relaziono molto la musica all’architettura e viceversa, proprio per l’elemento esperienziale o esplorativo che le accomuna. Il percorso attraverso lo spazio e la sequenza di quest’esperienza è simile all’esperienza di una canzone (o di un film), spesso caratterizzata da momenti di grande intensità seguiti da momenti di silenzio.
Credo che la musica sia un enorme specchio della nostra realtà e per me è sicuramente uno specchio dal quale non posso fuggire, in quanto se ho un periodo produttivo tale positività ed energia si riversa inevitabilmente anche nella musica che compongo. Al contempo la musica è sempre stata un diario nel quale riversare anche la mia oscurità, le mie paure, i miei dispiaceri e la mia rabbia nella maniera più scarna e onesta.
Inevitabilmente è sempre necessario trovare un equilibrio, ma questo è un lavoro che avviene prima dentro e non nel software. Come un rito spirituale, la composizione per me a volte diventa quasi una confessione, un’introspezione e un incontro faccia a faccia con i miei demoni e con i vari “what ifs” del passato, con le cose che avrei preferito cambiare, con le scelte non fatte e con i rimorsi ma anche con i miei sogni e aspirazioni, con immagini e proiezioni del futuro. Devo molto alla musica proprio perché mi ha insegnato a visualizzare, a guardarmi meglio da dentro, talvolta ad accettare la sconfitta oppure a perseguire un’idea fino alla fine, in fondo, a crederci.
“Uncaged” è il tuo ultimo Ep, che vede la collaborazione con Filip Giles, che tratteggia attraverso la parte vocale una profondità emotiva toccante incentrata sul concetto di resilienza. Com’è nata la vostra collaborazione e quanto è stato difficile trasformare e rendere questo concetto attraverso il tuo sound?
Ascoltavo giorni fa una citazione. Diceva qualcosa tipo: “è facile fare musica allegra, fatta per essere piaciuta. Questa è musica adatta agli ascensori”. La frase è risuonata in me in modo particolare, in quanto ho spesso diffidato della musica palesemente felice. Mi ha sempre dato un che di falso. Credo che per natura io abbia sempre cercato quel qualcosa in me di diverso e onesto e che potesse colorare la mia esistenza con tonalità che mi appartenessero.
Non mi vergogno di dire che ho avuto periodi del cavolo e che di conseguenza la musica che abbia fatto uscire facesse schifo. Ne sono consapevole e penso che anche la mer** sia parte del percorso, che vi piaccia o no…Tanto non l’ho fatta per voi, ma per me.
Il periodo 2020-21 è stato un periodo difficile per tanti. E “Uncaged” è nata proprio all’inizio della pandemia da una collaborazione con Flip Giles, una mia amica cantante inglese. Non volevo fare un altro pezzo per la pista, ma quasi un estratto di album. Qualcosa che risuonasse dentro in maniera viscerale. La canzone è stata scritta in poche ore, ma il missaggio è durato per più di due anni attraverso una settantina di versioni (eh lo so).
Ciò è stato dovuto in parte alla scarsa qualità della registrazione totalmente improvvisata della parte vocale di Flip, ma anche all’assunzione di farmaci per domare una crisi di ansia generalizzata che non mi permise di lavorare e talvolta neanche di essere esposto a suoni ritmici e frequenze per diversi mesi.
Nonostante altre takes di Flip (che ormai si era trasferita a Malta, dopo la registrazione del cantato per Uncaged nel mio studio di Londra, circa a Febbraio 2020), quella prima take fu quella più istintiva ed emotivamente ricca, nonché rappresentativa di quel momento insieme, unico ed irripetibile che avrebbe caratterizzato un’imminente transizione del mondo (con l’arrivo del Covid), ma anche della mia vita, poiché mi ero appena licenziato dall’ufficio per il quale lavoravo come Interior Designer per brand di lusso, al fine di conseguire la mia missione dal punto di vista musicale (tempismo perfetto!).
Quasi ironicamente, guardando a posteriori, Uncaged ha effettivamente rappresentato un periodo di difficoltà, cambiamenti, ripensamenti e simbolo di uno stato di stallo più che totale della mia vita, ma che è stato anche fulcro di un enorme sviluppo personale e rivalsa di cui avevo assolutamente bisogno.
A posteriori è evidente che io non sia stato un granché bene durante il periodo Covid e questa traccia è stata (e testualmente rappresenta) un vero inferno, ma che è anche ampiamente significativa di quel periodo che sono felice di essermi lasciato alle spalle e di aver superato anche con successi ed ampie soddisfazioni personali al di fuori della musica.
Come dicevo prima, è pur vero che gran parte delle mie tracce sono idee nate proprio da momenti o periodi intimamente difficili e credo che il mio messaggio di resilienza, ancora una volta, si riferisca proprio a questo: Non tutti i mali vengono per nuocere, talvolta è proprio un fallimento a portar con sé il seme di un successo di uguale o maggior valore.
Pete Tong ha definito il tuo stile musicale come “oscuro e letale”. Ti riconosci in questa definizione, Paride, e quanto nella tua vita da producer pesano o hanno pesato in passato i feedback ricevuti e gli apprezzamenti da figure cardine della scena come i Tale of Us?
Mi sorprese quando lo disse in radio. Si riferiva al mio singolo “The Other Side” feat. Monce (Terminal M) ed ammetto che mi fece uscire un bel ghigno quando lo sentii! L’opinione e l’endorsement di nomi come Tong, Adam Beyer, ma come anche di altri artisti italiani come i Tale Of Us, condiziona fortemente la percezione di un artista agli occhi degli addetti ai lavori (a giudicare anche dalla domanda).
Ricevere apprezzamenti e feedback da parte di queste persone è sempre piacevole, ma ancor più piacevole è quando il feedback (e soprattutto le critiche) arrivano dai followers nei DM, nei commenti su Youtube e dalle persone in serata o che mi ascoltano e mi seguono da anni, che hanno ascoltato il pezzo direttamente da me, in serata o sul mio Soundcloud / Spotify, e non passando per il Carl Cox di turno, magari con il nastro Tomorrowland o Awakenings a conferire un valore percepito aggiuntivo. Questo per me è il feedback più puro che un DJ e produttore possa ricevere.
Qual è al momento il tuo set up insostituibile in studio ?
Le mie Sony MDRV-700, Izotope Ozone 4 (non chiedetemi perché) e una sana dormita (è parte del setup anche quella).
Hai suonato in numerose cornici di rilevanza internazionale. Prepari il tuo set in maniera differente a seconda delle occasioni o invece preferisci lasciarti guidare dall’atmosfera che si crea in pista?
Dipende dalla situazione. Ho appreso che è più difficile trovare la quadra se il set è corto, e quindi una base di 4-5 tracce iniziali diventa necessaria per impostare un discorso di relazione con il pubblico, o almeno per testare il pubblico. Non faccio mai un discorso di generi, ma di ambienti. I miei eventi The Casbah Project sulle spiagge d’Abruzzo sono stati un terreno ideale per potermi esprimere, poiché curandone l’intera proposta musicale dalle 8pm fino alle 5 di mattina, mi permisero di impostare il mio set come un viaggio che parte da spazi esotici e tribali, confluisce in spazi più arabeggianti per poi decollare in sonorità più eteree ma sempre in chiave con il tema esotico dell’evento.
In una Warehouse o in un contesto come ad esempio Printworks o il Port Forum dove ho suonato per Drumcode, la proposta sarebbe simile a livello di evoluzione e di beat/groove, ma le sonorità probabilmente più tendenti ad un contesto Techno / industrial. Indifferentemente dal setting penso però che si possa sempre ritrovare l’essenza e le scelte che caratterizzano il mio sound.
Ultima domanda. Quali sono i progetti futuri per il prossimo anno per Paride Saraceni e gli obiettivi che vorresti raggiungere?
Ho varie cartucce in canna. Sto contemplando anche l’ipotesi di un nuovo alias, ma dovrà essere qualcosa di veramente unico e particolare… Sicuramente nel 2023 ci sarà più musica. Staremo a vedere.