In un’afosa giornata estiva nella quale sto preparando una nuova puntata del mio show radiofonico All the clubbers mi imbatto in un “articolo” a firma di Chicca Russo su Parkett dal titolo “Nel club una pulce ha la tosse”. Mi accendo una sigaretta ed inizio a leggere nella vana speranza che non si tratti del solito ragionamento intriso di qualunquismo. E invece eccolo lì. Ancora una volta, “one more time” come direbbero i Daft Punk. Allora sospendo la preparazione della puntata, mi accendo un’altra sigaretta, e scrivo a te cara clubber polemica.
Tanto per cominciare quando ad una cosa si da un nome vuol dire che esiste, che ha forma, che ha un’identità. Non perde valore, ne acquista. Ci sono casi infiniti nella storia sociologica che lo dimostrano: pensiamo agli hippie ad esempio. Quando intorno al 1940 fu coniato il termine “hipster” avvenne per dare un’identità ad un gruppo di persone accomunate da un qualcosa. Se oggi esiste nel gergo comune il termine clubbers dobbiamo esserne felici perché significa che la società ha sentito l’esigenza di definire una categoria fino ad oggi rimasta in sordina.
“Tatuati, maglia oversize lunga fino ai piedi, magari una barba perfetta e nero ovunque”, beh questa è moda. Niente più e niente meno che moda. Una moda proveniente dallo street style, al quale il clubbing è strettamente legato. Ciò non toglie che nel club si incontra ogni sorta di look, ma la domanda è: a te esattamente cosa importa come si vestono gli altri? Che te ne frega di come si è conciato quello che balla affianco a te? Il club è un momento di libertà, un momento di spensieratezza, e se quel ragazzo al tuo fianco vuole vestirsi così che Dio lo benedica.
Parli di puntuali ed ignoranti pagelle del giorno dopo, esattamente come avviene il lunedì mattina nel mondo del calcio. Ricorda, cara clubber delusa, che il pubblico ha il diritto di dire tutto ciò che vuole. Non è il pubblico che deve sottomettersi alla volontà dell’artista, bensì è l’artista che si pone e sottopone al giudizio di migliaia di persone che ha davanti. Lui è libero di compiere la sua strada e di fare tesoro, o meno, del pensiero di quella platea, ma il giudizio del pubblico va accettato e rispettato anche se non condiviso.
Basta con questa solfa secondo la quale il dj sia uno sciamano custode di una qualche verità a noi sconosciuta, basta con questa storia che se uno di loro proprio perché, come tu scrivi, è fuori fase può permettersi di sfoggiare tutta la sua arroganza fregandosene del giudizio del pubblico. Cara clubber insoddisfatta, quel “big” come lo chiami tu prende circa 10, 20, 30 magari anche 50 mila euro per stare su quel palco ed il minimo che possa fare è farsi un culo così per far divertire le persone, per regalare loro un’esperienza unica, per trasmettergli qualcosa. Se non ci riesce merita 50 mila vaffanculo, che siano sul web, sui social, sulle bocche della gente. Se l’esibizione di un dj fa schifo io lo dico, e come se lo dico.
Cara clubber confusa, la verità è che il clubbing, l’essere clubbers è un modo di essere. Lo è chi è appassionato di un certo genere musicale, nella maggior parte elettronico ma non solo, lo è chi in una giornata di lavoro aspetta con ansia che venga un certo orario per poter correre in un club con gli amici ad ascoltare buona (si spera) musica. Lo è chi si sente a proprio agio in quel posto perché lì sono tutti uguali, perché le classi sociali li vengono quasi ad azzerarsi, e allora ti ritrovi un chirurgo a ballare affianco ad un venditore ambulante, e magari diventano pure amici. Il clubbing è tolleranza, è rispetto, è unione.
Non serve fare “i galli sulla munnezza”, lasciamo a tutti la libertà di godersi il club come meglio credono, nel rispetto degli altri. La mia speranza è che dal clubbing sparisca chi vorrebbe portare nel nostro mondo un vento di intolleranza, di totalitarismo e di qualunquismo. Ne abbiamo già tanto fuori dalle mura del club, almeno li dentro lasciateci in pace.
Giorgio Ragone