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re:ni presenta il suo nuovo EP “Thousand Yard Stare”, condivide le sue prime esperienze nella Magic Drum Orchestra di suo papà, e riflette con noi sul futuro incerto del clubbing britannico.

Lauren Bush aka re:ni è una DJ e producer londinese che negli ultimi anni si è affermata come una delle figure più interessanti della scena underground britannica. Con un sound che spazia tra bass music, techno e broken-beat, la sua musica è un riflesso delle sue esperienze personali e della sua passione per i pattern sincopati. Cresciuta tra percussioni e sonorità globali grazie al papà musicista, Bush sviluppa fin da piccola una sensibilità unica per il ritmo e la composizione, che oggi caratterizza ogni suo progetto.

Il suo ultimo EP, Thousand Yard Stare, pubblicato il 25 ottobre per re:lax – label ed event-series fondata da re:ni e Laksa – esplora diverse traiettorie sonore dell’hardcore continuum britannico e ci conduce in una dimensione emotiva intensa e personale dell’artista. Lauren lo racconta più da vicino per i lettori di Parkett.

Ciao re:ni, benvenuta su Parkett! Il titolo del tuo nuovo EP, Thousand Yard Stare, suggerisce uno stato dissociativo causato da un trauma, come dichiarato nel comunicato stampa. Come hai tradotto un’emozione così complessa in musica, in questo EP? E quando ti sei sentita soddisfatta del risultato?

Ciao, grazie! In realtà il titolo è arrivato dopo aver finito l’EP. Stavo sfogliando un archivio di fotografie storiche piuttosto inquietanti e il termine “Thousand Yard Stare” è stato citato nella didascalia di un’immagine di un soldato della Battaglia di Eniwetok durante la Seconda Guerra Mondiale.

L’idea di uno stato dissociativo come risposta al trauma mi ha colpito profondamente e si collega al mio processo creativo. Mi sono chiesta: che tipo di musica avrei creato se non avessi vissuto certe esperienze? Avrei scritto proprio questi brani? Lottare contro depressione e ansia ha significato per me affrontare periodi in cui riuscivo a malapena ad alzarmi dal letto. Ma mettermi al computer e sfogare le mie emozioni su Ableton mi ha dato uno scopo, aiutandomi a uscire dalla paralisi.

Non ricordo quasi nulla dei mesi in cui ho scritto la title track, perché stavo attraversando un momento difficile a livello mentale. Tuttavia, è uno dei brani che considero più originali e riusciti della mia discografia. Credo fermamente che la musica abbia il potere di guarire.

A livello globale, ciò che stiamo osservando oggi nel mondo, con gli orrori dei genocidi a Gaza e in Sudan, sta generando un trauma collettivo. Ogni giorno guardiamo video e immagini di bambini con quello stesso sguardo del soldato: uno sguardo pieno di terrore. È fondamentale continuare a parlarne, non dimenticare i bambini e le famiglie uccise, soprattutto considerando l’atteggiamento dei media occidentali, che spesso scelgono di ignorare queste atrocità.

In press release hai affermato che Thousand Yard Stare “incarna il carattere e l’energia dell’hardcore continuum”. Il concetto di “hardcore continuum” mi ha sempre affascinata particolarmente. Qual è secondo re:ni lo stato attuale di questo continuum?

Molti associano l’hardcore continuum alla nostalgia, perché sono passati molti anni dai break-out moments di generi come jungle, grime, dubstep, ecc. Ma se intendiamo l’hardcore continuum come espressione della musica britannica prevalentemente black, parliamo di una scena in grande fermento. Basti pensare alla UK drill, uno dei suoni più innovativi emersi nel Regno Unito negli ultimi dieci anni.

In molti casi si può parlare di una “gentrificazione” dei generi legati all’HC. Per esempio, il ritorno del garage britannico come genere associato a ragazzi bianchi di classe media e alle loro etichette di ristampa: un netto contrasto rispetto alle narrative razzializzate di criminalità e violenza che lo hanno contraddistinto agli inizi.

Inoltre, oggi sembra esserci una maggiore ibridazione tra generi, sia all’interno che all’esterno dell’hardcore continuum. In questo contesto si inserisce anche la contaminazione tra la scena underground e generi e ritmi latini, grazie soprattutto a collettivi come Tra Tra Trax e Sangre Nueva, che evidenziano chiari parallelismi tra l’UK funky e il dembow.

È ironico che il reggaeton sia rientrato nella scena underground solo dopo essere diventato così pop come genere (con artisti incredibilmente ricchi e numeri di streaming record), quando l’Europa ha iniziato a prestargli attenzione. Recentemente, è diventato di tendenza per i DJ underground suonarlo. Come il garage e il grime britannico, anche il reggaeton è stato fortemente stigmatizzato prima di esplodere e entrare nel mainstream. È interessante osservare queste dinamiche e il modo in cui vari mondi e culture si influenzano reciprocamente.

Hai iniziato suonando nella Magic Drum Orchestra di tuo padre, band che spazia dalla Batucada all’Afrobeat. Senti che questa esperienza ha influenzato il tuo approccio ai ritmi sincopati nella musica bass-driven e broken-beat?

Assolutamente sì. Suonavo spesso il Tamborim (da non confondere con il Tamburello). È un piccolo tamburo a cornice brasiliano che si suona con una bacchetta a tre punte. È davvero FORTE, quindi se volete provarlo, consiglio vivamente di usare i tappi per le orecchie! :3

Nell’orchestra questi strumenti venivano usati per creare pattern sincopati davvero interessanti. Parlarne ora mi dà i brividi: è passato molto tempo da quando ho suonato con la band, che purtroppo si è sciolta, è stato davvero incredibile. Ricordo quei ritmi come se fosse ieri e cerco di riprenderli, insieme agli strumenti a percussione, nelle mie tracce. A volte facevamo anche cover di brani hip-hop o dubstep (come Crunked Up di Benga).

In quel periodo scoprivo la musica elettronica ascoltando artisti come James Blake, Burial e Vex’d. Un saluto a Mikey, il mio compagno di band, che mi masterizzò un CD di “post-dubstep” – da lì è iniziato tutto!

Hai parlato più volte, infatti, del tuo amore per il dubstep, e si percepisce chiaramente l’influenza di questo genere in alcune delle tue produzioni. Cosa ti affascina tanto del dubstep?

È difficile descrivere come il dubstep mi fa sentire: c’è qualcosa di davvero spirituale nei suoi ritmi e nelle frequenze sub profonde, soprattutto se ascoltato su un grande impianto. Intenso, pieno, profondo – queste sono le parole che associo al dubstep. Lo spazio e l’essenzialità dei brani ti permettono di entrare in uno stato meditativo, chiudere gli occhi e immergerti nel groove.

La presenza degli MC nel dubstep, ovviamente, aggiunge energia e rende l’esperienza più coinvolgente, facendo sì che tutti si sentano parte di un viaggio collettivo.

In più, trovo i 140 bpm un tempo molto versatile, che mi consente di passare tra techno più veloce e dubstep durante i DJ set. Amo la tensione tra il 4/4 ipnotico e i suoni dark a 140 bpm, in particolare quelli garage-oriented di artisti come Darqwan, Milanese ed El-B. DJ come Oblig e MJK hanno perfezionato questo sound ibrido: consiglio vivamente di ascoltarli!

Co-dirigi l’etichetta e il format di eventi re:lax insieme a Laksa. Quali aspetti considerate quando scegliete artisti per le release o performer per gli eventi?

Il processo è piuttosto organico. Per esempio, Jurango ci ha inviato i suoi brani nel 2020, c’è stata una connessione immediata con il suo sound. Ci è voluto più di un anno per definire la tracklist finale; io e Cal siamo molto coinvolti nell’A&R e preferiamo lavorare a stretto contatto con gli artisti per perfezionare i brani piuttosto che affrettare i tempi.

Entrambi abbiamo vissuto questo processo producendo per altre etichette e riteniamo che sia utile per tutti esaminare i brani nel dettaglio insieme. Ricevere feedback e fare più revisioni non è per tutti, ma personalmente mi ha aiutata a crescere come producer, e voglio che chi lavora con noi abbia lo stesso beneficio.

Sia Jurango che Harba sono artisti estremamente scrupolosi e produttivi. Eliot (Harba) mi aveva inviato diverse demo che avevano già attirato l’attenzione di DJ come Ben UFO. Inizialmente stavamo discutendo su quali label potessero essere interessate a pubblicarli, ma poi ci siamo detti: “Aspetta, perché non li pubblichiamo noi?!”. Amo quando queste collaborazioni nascono in modo così spontaneo.

Il clubbing e la nightlife britannica stanno attraversando un momento difficile, è innegabile. Come percepisci questa situazione? Secondo te, cosa dovrebbero fare i politici e le comunità locali per dare un futuro al settore?

È difficile essere ottimisti. Dalla pandemia, quasi 400 club hanno chiuso nel Regno Unito. Il costo della vita ha avuto un impatto significativo sul settore, come dimostra il calo dei pre-sale, meno bevande vendute al bar e l’aumento dei prezzi dei biglietti. Anche le bollette in continua crescita rappresentano un ostacolo enorme per i club.

Purtroppo, questo potrebbe penalizzare soprattutto le realtà e gli spazi più sperimentali e alternativi. La paura di correre rischi potrebbe favorire scelte più “sicure” nelle line up, dando priorità a grandi nomi.

Per non parlare dell’aumento dei costi che sta portando molte realtà a non riuscire a sostenersi, obbligandole a chiudere. Ciò avvantaggia principalmente le grandi imprese capitalistiche o chi ha risorse economiche ereditate a cui attingere. Nel settore artistico, questo finisce quasi sempre per danneggiare le realtà più audaci e gli artisti che spingono i confini creativi, percepiti come un rischio economico maggiore.

Negli ultimi 15 anni, gli investimenti nelle arti da parte delle autorità locali sono diminuiti del 30%, lasciando poco margine di supporto per chi ne ha davvero bisogno. È fondamentale intervenire rapidamente, prima che altre istituzioni subiscano danni irreparabili. Fare pressione per aumentare i finanziamenti alle arti ed estendere gli sgravi fiscali per le imprese è indispensabile, ma alla fine il fattore più cruciale per garantire la sostenibilità del settore sarà il calo dell’inflazione.


ENGLISH VERSION

re:ni shares insights into her new EP, “Thousand Yard Stare“, her early experiences with her father’s Magic Drum Orchestra, and reflects with us on the uncertain future of British clubbing.

Lauren Bush, aka re:ni, is a London-based DJ and producer who, in recent years, has established herself as one of the most compelling figures in the UK underground scene. With a sound that spans bass music, techno, and broken-beat, her music reflects her personal experiences and passion for syncopated patterns. Growing up surrounded by percussion and global sounds thanks to her musician father, Bush developed a unique sensitivity to groove and composition from an early age — traits that define all her projects today.

Her latest EP, Thousand Yard Stare, released on October 25 via re:lax — a label and event series founded by re:ni and Laksa — explores the diverse sonic pathways of the UK’s hardcore continuum, taking listeners on an intensely emotional and deeply personal journey. Lauren shares more about it in detail with Parkett readers.

Hi re:ni, welcome to Parkett Channel. The title of your new EP, “Thousand Yard Stare” suggests a dissociative state brought on by trauma – as stated in the press release. How did you translate such a complex emotion sonically in this EP, and how did you know when you’d achieved the desired effect? 

Hey! The name actually came after I had finished the ep. I was looking through an archive of haunting photographs from throughout history and the “Thousand Yard Stare” was mentioned when describing an image of a soldier from the Battle of Eniwetok during WW2.

The notion of being in a dissociative state as a trauma response resonated with me and my creative practice. I asked myself – what music would I have made if I hadn’t gone through certain things? Would I have made these exact tracks? Dealing with depression and anxiety has meant there have been times I’ve barely been able to get out of bed, but getting myself in front of my computer and hashing out my emotions in Ableton has given me a sense of purpose and helped me to break out of paralysis.

I actually barely remember the months around writing the title track as I was not in a good way mentally, but the track is one of my favourite, most original and accomplished of my discography. I strongly believe music has the power to heal. 

On a macro scale, what we are witnessing happening in the world with the horrors of the genocides in Gaza and Sudan are placing many people in a collective trauma. Every day we are seeing videos and images of children with that same stare as the soldier, one of pure terror. It’s so important that we keep speaking out and do not turn away from what is happening or forget the children and families killed, especially when the Western media chooses to largely ignore these atrocities. 

In the press release you said that Thousand Yard Stare „embodies the character and energy of the hardcore continuum“. I have always found the concept of „hardcore continuum“ fascinating. What do you think is the current state of this continuum?

I think a lot of people associate the hardcore continuum with nostalgia because we’re now many years on from the initial break-out moments of jungle, grime, dubstep etc. I would say though that if we’re understanding the HC as an expression of British, mostly black music, this never went away. Look at UK drill – one of the most fresh and innovative sounds to have come out of the UK in the last 10 years. 

In many ways you could say there’s been a gentrification of genres from the HC. For example the resurgence of UK garage as synonymous with white middle-class boys and their reissue imprints – a far cry from the racialised narratives around crime and violence that were peddled in the genre’s early days. It also feels like there’s a lot more cross-pollination between genres now, both from within and outside of the HC. For example, Latin genres and rhythms have become prevalent in the underground via Tra Tra Trax, Sangre Nueva, where there are clear parallels between UK funky and dembow. Where reggaeton has its roots in the Caribbean and black working class Latin America, the hardcore continuum is understood as the embodiment of the (mainly black) British working class community.

What’s ironic is that reggaeton only re-entered the underground after becoming so ubiquitous as a genre (with hugely wealthy artists and record-breaking streaming stats) that Europe began to pay attention to it, and over time it became trendy for underground DJs to play. As with UKG and grime, reggaeton was heavily stigmatised before it blew up and entered the mainstream. It’s interesting to observe these trajectories and the relationship between these worlds. 

Your background includes performing in your father’s Magic Drum Orchestra, which spans styles from Batucada to Afrobeat. Do you feel this early experience shaped your approach to rhythm—especially syncopated rhythms—in bass-driven and broken-beat music?

Oh absolutely. I was usually playing the Tambarim (not to be confused with Tambourine). It’s a small round Brazilian frame drum and is played with a 3 pronged beater. That shit is LOUD so if you’re thinking of trying it out please get ear protection first :3

In the band these types of percussion are used to play really interesting syncopated patterns. Just talking about it now is giving me chills, it’s been a long time since I played with the band and it no longer exists but it was incredible at the time. I can remember the rhythms like it was yesterday and definitely try to reference them as well as the perc instruments in my own tunes. Sometimes we would do covers of hip-hop or dubstep tunes (Benga’s Crunked Up for example). 

This was around the time I was getting into dance music via James Blake, Burial and Vex’d. Shout out my bandmate Mikey who burnt a CD of ‘post-dubstep’ for me- the rest is history! 

You’ve mentioned several times that you’re a huge fan of Dubstep, and elements of the genre are evident in some of your productions. What is it about Dubstep that inspires your admiration and passion for this Genre?

It’s hard to articulate how dubstep makes me feel – there’s something truly spiritual about the rhythms and heavy sub frequencies, especially when hearing them on a huge system. Warm, rich, deep – these are all words I associate with dubstep. The space and sparseness in the tracks allow you to really zone out, close your eyes and get into the groove, it’s almost meditative. The prominence of MCs on dubstep of course adds hype, as well as heightens the experience as being focused on the present moment, where everyone is on a journey together.

I find 140bpm a very versatile tempo as it means when djing I can switch between faster techno and dubstep. I love that tension between driving, hypnotic 4/4 and dark 140, especially the garage-leaning sounds of people like Darqwan, Milanese and El-B. DJs like Oblig and MJK have really nailed this hybrid sound, fully recommend checking them out if you haven’t already!

You co-own the label and party format re:lax with Laksa. What specific aspects do you consider when signing artists for releases or selecting performers for your events?

It’s pretty organic. In the case of Jurango, he first sent us tunes in 2020 and we instantly connected with his sound. It was over a year before the final tracklist came together; Cal and I are quite involved in the A&Ring and we would much rather work closely with an artist to get the tunes to a point we are all happy with than rush anything.

Both of us have gone through this process when writing for other labels and feel it is beneficial for everyone to go through tunes in detail together. Receiving feedback and doing multiple revisions isn’t for everyone, but I’ve personally found it has helped me develop as a producer and want people joining the label to feel they are getting the most out of working with us.

Both Jurango and Harba are super conscientious and already prolific. Eliot (Harba) had been sending me dubs for a while and people like Ben UFO were already repping them. We had spoken about which labels he should send them to, then we were like “hang on a minute, why don’t we release them?!” It’s nice when it happens naturally like that. 

With the current crisis facing UK nightlife making headlines, as someone who was born and raised in the UK, how do you perceive this situation? What actionable steps do you believe politicians and local communities should take to address the challenges facing the nightlife sector and ensure its future sustainability?

It’s difficult to feel optimistic about things. Almost 400 clubs have closed across the UK since the COVID pandemic. The cost of living has inevitably had a detrimental impact on the nightlife industry, evident in the decline of pre-sale tickets, lower bar spend and increased ticket prices. Rising energy bills are of course a huge factor for club spaces too. The new budget announced last week revealed the threshold for National Insurance contributions has been lowered, as well as alcohol prices being set to rise, which will pose challenges for already struggling nightclubs.

Unfortunately I feel this will have negative consequences for more leftfield promoters and spaces, as there will be less confidence in taking risks when programming, leading to “safe” bookings of big names pushing out more interesting up-and-coming artists. As with any industry, when costs are rising many institutions/individuals cannot afford to keep going, meaning those left over tend to be either more large-scale capitalist ventures or those from inherited wealth who have money to fall back on. With the arts this almost always endangers the more boundary-pushing, esoteric institutions/artists as they become financially more of a risk.

Investment in arts via local authorities has fallen 30% in the last 15 years so there really isn’t much of a fall-back for those who need it. There needs to be action soon, before more institutions suffer irrecoverably from these changes. Lobbying for arts funding and extending business rates relief are necessary, however ultimately the rate of inflation coming down is going to be the biggest factor in sustaining the industry.