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Dal jazz alla sound art, da Modena a Lubiana, dal Drummophone a James Ginzburg; sono questi alcuni degli argomenti trattati nell’intervista al talento italiano Riccardo La Foresta, in vista della sua performance al prossimo Robot Festival #13.

Dare una definizione di chi è Riccardo La Foresta potrebbe non essere così semplice o, dall’altra parte, troppo semplicistico. Parliamo di uno dei migliori sound artist italiani in circolazione, una figura che attraverso la ricerca musicale si è fatta spazio nell’incontrollabile e vasto scenario musicale sperimentale mondiale.

Se mai avete sentito il suo nome, non preoccupatevi, noi di Parkett abbiamo deciso di intervistarlo in vista del suo prossimo appuntamento sonoro nel nostro Paese. Riccardo è conosciuto per il progetto Drummophone: si tratta di un sistema che gli consente di suonare i tamburi con l’aria e che negli ultimi anni si è evoluto costantemente. Il Drummophone è stato presentato per la prima volta nel 2017, presentato al Tempo Reale di Firenze (istituto di ricerca fondato da Luciano Berio), nella sua versione iniziale dove veniva suonato attraverso il fiato dell’artista.

Di qui in poi Riccardo incomincia un lungo periodo di studio e ricerca che lo porta ad implementare il meccanismo del suo Drummophone, raggiungendo nel 2020 l’attuale versione, presentata anche al pubblico italiano al Lost Music Festival nel 2022. Il suo percorso di crescita lo ha portato ad essere scelto dalla piattaforma Shape, che ogni anno segnala i migliori artisti emergenti, valorizzando il loro lavoro attraverso collaborazioni con altre piattaforme del settore, una su tutte: Crack Magazine.

Ciao Riccardo! È un onore, oltre che un piacere, averti qui su Parkett. Benvenuto. Rispetto al tuo primo live da solista, avvenuto nel lontano 2015, come credi che sia cambiato e/o cresciuto il tuo approccio alla musica? Come si è evoluto il processo di ricerca musicale e come lo hai tradotto nelle tue performance?

Prima del 2015, ho suonato per anni con progetti diversi, partendo dal jazz ed arrivando alle sonorità più contemporanee, per poi dedicarmi all’improvvisazione libera. Nel 2015 si è avviato un percorso di ricerca che mi ha rapidamente allontanato dal mio primo strumento, la batteria. Il Drummophone, il sistema con cui suono i tamburi con l’aria, si è evoluto a pari passo con quelle che erano le esigenze della mia pratica strumentale. Solo recentemente, dopo circa 7 anni, sono riuscito a trovare un senso a questo percorso di ricerca. Ora il Drummophone ha un’immagine molto più chiara e completa, un ruolo definito. Mi ha portato a interagire tanto con il suono tanto quanto con l’architettura, a realizzare lavori site-specific dove il confine tra concerto, performance e installazione è quasi inesistente.

Negli ultimi anni tu, come altri artisti o gruppi italiani, sei stato selezionato da SHAPE Platform, famosa per la ricerca e la crescita di artisti emergenti. Puoi raccontarci qual è stata la tua esperienza con loro? Cercando di lanciare un messaggio a tutti coloro che in un futuro, magari, riusciranno ad essere selezionati da tale programma.

Sono stato selezionato da SHAPE Platform nel 2021 ed è stata un’esperienza positiva, mi ha offerto diverse nuove opportunità lavorative e consolidato altre che invece erano in stand-by dal 2020, per ovvie ragioni. È una realtà eterogenea ed ancorata al circuito della musica, fatta di persone, organizzatori, curatori ed artisti. Sicuramente una grande opportunità per allargare le proprie conoscenze nel settore, che va saputa cogliere e che può ripagare molto. Ho capito che ogni artista ha un’esperienza diversa all’interno del programma, dipende molto da te in sostanza. Consiglio di tenere d’occhio il loro roster di artisti ogni anno, ci sono alcune delle migliori nuove proposte sul panorama europeo.

Nel roster del 2022 è presente un’altra figura importante della scena sperimentale italiana, Nziria, che si esibirà al Robot 13. Il festival ospiterà anche Riccardo la Foresta insieme all’artista inglese James Ginzburg. 

Leggiamo assieme quali sono le sue impressioni sul festival e sulla collaborazione con l’artista britannico.

Io e James ci siamo conosciuti a Lubiana l’anno scorso, condividendo una serata a Sonica Festival (sponsorizzata da Shape nel mio caso) ma prima di questa ho avuto l’occasione di  sentirlo suonare alcune volte con Empty Set. Ho sempre ammirato la sua capacità di scolpire il suono, di trasformare strumenti acustici portandoli alle estreme conseguenze. Recentemente James ha iniziato a suonare dal vivo con gli strumenti con cui crea la sua musica in studio: questo è stato il punto di connessione per creare qualcosa assieme.

A Robot 13 avremo la possibilità di lavorare i giorni prima del concerto in una breve residenza artistica – e di sviluppare idee sulle quali ci stiamo confrontando da tempo. Abbiamo scelto di presentare il risultato con una formula ibrida tra installazione e concerto, dove lavoreremo per mettere in dialogo le nostre più recenti evoluzioni solistiche. Un’esplorazione di materiali sonori, droni meditativi e ritmi periodici, accordature indefinite e stati d’animo alterati da microtoni metallici, plastici e vibranti. Il duo prenderà forma in un intervento tra installazione sonora e durational performance dentro Palazzo Re Enzo, giovedì 6 Ottobre.

Robot 13Sempre su Robot 13, trovandoci a Bologna vicino alla tua Modena, ti chiedo: quanto contano le tue origini territoriali nel tuo processo di produzione musicale? Esiste qualche segno, suono o luogo preciso che ha per te un valore affettivo nei tuoi ricordi che dà un senso specifico alla tua musica?

Quello che posso dire è che ho fatto pace con Modena già da qualche anno, che non voglio fuggire, non ne sento più il bisogno. Anzi, ci sto bene.

Per diversi anni avrei voluto scappare, ma non l’ho mai veramente fatto.

Non ci sono luoghi, segni, suoni o origini territoriali che contino particolarmente nella mia musica, ci sono però persone e scambi che hanno influenzato le mie scelte e i miei pensieri e non mi riferisco solamente a maestri o artisti, ma anche ad amici e relazioni, tutto quello che mi ha tenuto qui, a Modena ed in Emilia-Romagna, che considero un’isola felice nel panorama della cultura italiana.

Il mio lavoro come curatore, prima di concerti segreti in giro per la città, poi con NODE e con un programma di residenze artistiche che prende vita al Centro Musica di Modena, ha contribuito a questo processo di ricongiunzione con la mia città. Non ho mai suonato tanto qui, e lavoro più all’estero che in Italia, ma ci sono diversi aspetti creativi e di supporto della comunità che per me appartengono tanto al musicista quanto all’organizzatore: sono felice di avere qui un ruolo diverso da quello che ho fuori, mi tiene in equilibrio.

Node Festival

Essendo nell’organizzazione di NODE festival di Modena, come stai lavorando alla prossima edizione dell’evento e quali saranno le principali novità?

Nel 2017 ho suonato a NODE come artista e, poco dopo, sono entrato nel team che organizza questo fantastico festival dal 2008. Ad oggi il festival è biennale e negli anni off presentiamo un programma principalmente costruito sul suono.

Non posso svelare nulla sul programma che verrà annunciato a breve, ma il festival continua ad evolversi e con lui anche le idee e la nostra visione. Prendiamo rischi e mettiamo in discussione le nostre idee costantemente.

Ti va di lasciarci raccontandoci i tuoi imminenti progetti futuri e come vorresti vederti artisticamente tra qualche anno?

Concluso questo periodo intenso di live e tour, voglio registrare un nuovo disco e prendermi tutto il tempo necessario per farlo, senza compromessi, idealmente i primi mesi del 2023.

Negli ultimi dieci anni, ci sono stati tanti cambiamenti nel mio approccio alla musica e alla professione, ho capito che questi sono una necessità.

C’è una frase di W. de Kooning alla quale sono particolarmente affezionato:

“I have to change to stay the same”.

Tra qualche anno, vorrei essere artisticamente da tutt’altra parte.