Da Berlino tornano tre giganti, che ci tengono particolarmente a definirsi non come Modeselektor+Apparat ma giustamente come l’entità unica Moderat (QUI), con proprietà ben oltre quelle che si avrebbero dalla loro semplice somma e un’identità a sé stante decisamente non circoscrivibile in un’equazione.
Nel loro terzo lavoro viene conclamata la tendenza che si era intravista in II e risultano ben appianate le asperità che si generano dall’incontro del clubbing di provenienza più Modeselektor e la delicatezza propria di Apparat, caratteristiche che hanno reso “II” un lavoro un po’ eterogeneo e volubile, ma che sono state ottimamente levigate in “III”. L’utilizzo del cantato di Sascha Ring ora è pervasivo, dato che figura in tutte le tracce tranne una, e i tre artisti non paiono più avere quelle riserve nel mostrarlo che potevano essere percepite in “II”.
Se in “II” parevano un po’ sondare il terreno dando solo una spolverata di “pop” (questo termine, che andrebbe tra molte paia di virgolette, è usato qui solo per indicare un più fondamentale voce-centrismo nell’arrangiamento, con vere e proprie alternanze strofa-ritornello – ne parleremo più avanti), nel “III” sembrano essersi lasciati più andare all’utilizzo di quel cantato molto smooth, sommesso, spesso in falsetto in perfetto stile Apparat, e ne abbiano fatto un po’ la bandiera delle loro nuove formulazioni musicali. Nei due precedenti LP non era così presente, e addirittura in “I” abbiamo anche una traccia grandiosa come “Slow Match” (di cui non abbiamo mai ben capito il motivo della sua esclusione da quasi tutte le loro scalette live) che propone nella voce di Paul St. Hilaire un’alternativa più baritonale e aggressiva rispetto a quella di Sascha Ring, con tutt’altro accento e passo.
Alla luce di questo nuovo lavoro, potremmo forse azzardarci di definire con senno di poi “II” come un disco di transizione, un essenziale passaggio tra le sonorità di eredità più techno di “I” e la più pacata morbidezza, il downtempo di “III”. Downtempo che fa pensare un po’ alla Bristol di anni passati, ma ora elaborato in salsa mitteleuropea e particolarmente lirico, a tratti con una lievissima vena R&B. Volendo essere puntigliosi, forse l’unico neo nel modo di cantare di Ring è un’uniformità che se da un lato conferisce compattezza al pacchetto-album, man mano che si arriva verso la fine del disco pare anche risultare un po’ monocorde, e tende a farti sentire in una barca che naviga in acque calme tutto il tempo, cosa che nei brani particolarmente “lenti” rischia di rilassare un po’ troppo l’ascoltatore, trasportandolo in reami totalmente eterei dove si perde il contatto prezioso con l’anima ritmica moderatiana.
A metà opera ritroviamo il singolo “Reminder” che a inizio marzo ci aveva dato un assaggio di “III”, e avendo ora una visione d’insieme si è rivelato un brano molto rappresentativo. La formula ricorda la ben funzionante “Bad Kingdom”: un basso profondo e prepotente, anche se stavolta il timbro è più chiuso, più dub ma non ancora sub, un ritornello in cui si apre improvvisamente il cielo e si fa largo uno spiraglio sognante, unito a quel rintocco spettacolare di synth ogni quattro battute che ricorda il gran suono che in “Bad Kingdom” assomiglia al vocalizzo di un elefante. Decisamente un momento saliente del disco. L’ottima scelta del singolo ci fa oltretutto ben comprendere la maturità anche dal punto di vista comunicativo del trio tedesco.
Si accennava poco fa all’anima ritmica, forse l’unica forza “uguale e contraria” al protagonismo delle voci di cui si è ampiamente parlato. La sezione ritmica è stata in effetti un po’ sacrificata per dar spazio alla parte più melodica, all’aria, al verbo, che solleva da terra chi ascolta. Ogni tanto però questa repressa componente “di terra” si riafferma e torna prepotentemente a reintrodurre materia nella pasta sonora. In “Intruder” assistiamo a una conturbante tessitura percussiva che nella seconda parte del brano ha una sorta di momento di assolo molto interessante, dove tutto il resto tace e si accavallano battiti squisitamente sintetici.
Nel finale si arriva ad “Animal Trails”, che a parere nostro merita una menzione a parte. E’ una traccia da mettersi a piangere, letteralmente. C’è una “vibe” che ci mette venti secondi a commuoverti, e mentre sale viene fuori di tutto: una luminosità che arriva ad investirti, le percussioni, l’Africa, suoni a metà tra versi di animali e voci di bambini che riecheggiano, le basse della dub, nel ritornello esplode un lead che ricorda da lontano i grandi temi “anthem” da rave, ma senza picchiare come nell’ambito “rave”. E durante il divampare di questo incendio visualizzi fauna che corre libera, paesaggi sconfinati, una sensazione di amore assoluto. E’ inevitabile. E’ un inno dove si incontrano più sub-culture del mondo della musica elettronica, tutte insieme. Africa anche in questo senso: culla dell’umanità, culla della musica da dove è nato tutto. Si può dire che questa traccia detiene l’orgasmo del disco. Ci risulta difficile anche passare a quella successiva, data la voglia di riascoltarla a ripetizione.
Difatti la chiusura “Ethereal” parla chiaro, a partire proprio dal titolo. E’ la sintesi dopo tesi ed antitesi, l’unione di cielo e terra e non poteva che trovarsi alla fine.
Dalle fonti streaming salta subito all’occhio l’abbondanza di materiale laterale, dato che possono trovarsi anche un secondo disco composto da remix e addirittura un terzo con le versioni strumentali dei brani. Versioni strumentali indubbiamente degne di nota, per chi volesse avere un’idea dell’album virandolo verso il suono puro e allontanandosi dalla componente vocale. Versioni strumentali che però non costituiscono nuovi arrangiamenti e dove la traccia di voce è semplicemente assente, senza che sia stata sostituita da nulla che riempia il vuoto da lei lasciato.
E’ interessante perché permette di scoprire la stratificazione sonora e le dinamiche di “III” e permette di studiare il loro modo di comporre, ma forse sono versioni non godibili a pieno, dal momento che è chiaramente percepibile il fatto che manca qualcosa in momenti dove ad esempio dovrebbe esserci la strofa. Ciò probabilmente è anche segno del fatto che evidentemente ci si abitua presto alla voce già dal primo ascolto, e questo fatto suggerisce molte cose: inanzitutto che tutta la palette sonora è ben impastata, le voci amalgamate a tutto il resto, di modo che tutto si sviluppi in piena fluidità e non c’è un singolo elemento fuori posto.
Del resto sarebbe sorprendente il contrario: è decisamente un periodo aureo per i Moderat ed è facile supporre grandi investimenti in strumentazione di alto livello, specialmente per la fase di mastering. Inoltre c’è anche un secondo aspetto: cioè che l’articolazione del disco-discorso sia di più facile assimilazione. E qui ci ricolleghiamo con la parola “pop” utilizzata all’inizio, da prendere con le pinze. E’ in questo senso che i Moderat si sono fatti più “pop”: la voce indubbiamente seduce, canticchiare parole che rimangono in testa funziona e funzionerà sempre nella musica. Questo, per carità, non volgarizza il loro lavoro ed è importante precisare che si tratta di elemento “pop” non con accezione dispregiativa, ma anzi significa un modo di divulgare le idee in maniera più versatile, affacciarsi fuori da una certa nicchia pur conservandone le radici, il patrimonio culturale da cui si proviene, valorizzando cioè allo stesso tempo molte correnti squisitamente elettroniche. Immaginate di voler far conoscere i Moderat a un amico che ascolta musica leggera e non è cultore della musica elettronica: crediamo sia più probabile che vi venga di proporgli “III” piuttosto che “I”, e c’è un motivo.
Un ultimo risvolto che ci viene da “III” è il fatto che ci permette anche di inquadrare meglio il “II”. A quel tempo chi si aspettava un bis di “I” forse è rimasto spiazzato quando è uscito il secondo capitolo che non si può dire in continuità con il precedente, ma “III” chiude il cerchio e ora tutti i tasselli paiono andare al loro posto.
In attesa di partecipare al loro concerto-evento del 29 aprile a Spazio 900 di Roma e di raccontarvi con video e report come è andata, torniamo subito a riascoltare la terza fatica dei Moderat che già avvertiamo il mal d’Africa di “Animal Trails” chiamarci.
Paolo Castelluccio