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Il nostro report del ROBOT #13, tra musica, arte e sperimentazione.

Robot Festival è tornato con un’edizione in grande stile. Durante lo scorso week end, infatti, Bologna, si è trasformata in meta internazionale della musica elettronica. Parkett non poteva non esserci.

Si sono succeduti tanti talk, numerose performance e live act.  Riuscire a seguire ogni esibizione è stata una missione difficile ma stimolante, tant’è che ci siamo letteralmente triplicati per potere partecipare ad ogni evento. Vi raccontiamo il nostro fine settimana lunghissimo, da mercoledì 5 a sabato 8 ottobre 2022.

Si è partiti con l’interessante “Scratch Party” all’Accademia di Belle Arti. Un luogo che ha saputo tracciare il confine tra arti visive, proiezioni, sperimentazioni e musica. Una bella fusione tra istituti, visto che era coinvolto anche il Conservatorio “G.B. Martini”, per una collaborazione riuscitissima.

Dopo l’apertura, il giorno seguente, il festival è partito lanciatissimo, tornando nella splendida cornice di Palazzo Re Enzo, che ha visto le sue tre sale godersi uno spettacolo coinvolgente.

Dall’onirica performance dei Salò, mascherati di tutto punto, per la loro “Baronato Quattro Bellezze”, fino all’installazione site specific di James Ginzburg e Riccardo La Foresta, in un tripudio di percussioni e risonanze.

A farla da padrone ci sono stati i live nel Salone del Podestà, partendo dall’energica performance di NZIRIA, accompagnata dai “lightscapes” di Bianca Peruzzi. Ha poi preso posto il viaggio psichedelico di Lyra Pramuk, che ha riempito lo spazio dei suoi echi elettronici. Successivamente si è esibito Gabor Lazar, che ha decostruito il suono, con richiami a mondi alieni. Per finire in bellezza, Loraine James, ha portato il suo mood ritmato per farci scatenare.

Abbiamo avuto modo di seguire, anche, la serie di concerti all’Oratorio di San Filippo Neri. La bellissima sala ha ospitato venerdì le sonorità eteree e avvolgenti di Carmen Villain, nonché le fascinazioni di Courtesy, entrambi eccellenti nel riproporre brani conosciuti in chiave sperimentale. Al sabato, invece, si sono viste le commistioni tra strumenti “tradizionali” e sperimentazioni elettroniche di Sophie Birch, con Nana Pi, nonchè di Mario Batkovic.

ROBOT #13 Credit Photo Roberto Deva

 

Il festival entra nel vivo dal venerdì sera

Se la serata di apertura del giovedì è stata grandiosa, il venerdì al Dumbo non ha di certo deluso le aspettative. Nella quattro giorni di festival, per la prima volta, il pubblico è stato accolto nell’ex scalo ferroviario, una delle due venue, assieme al TPO, dove musica ed atmosfera notturna si sono combinate perfettamente generando un’esperienza extra ordinaria.

Contemporaneamente con le perfomance avvenute al main stage, ci hanno colpito le esibizioni alla Baia, il palco più piccolo. Si sono esibiti due talenti italiani: Eva Geist e Lamusa II che hanno dato il kick-off della terza serata con un b2b fatto di ritmiche tribali e oscure.

Sorseggiando i buonissimi cocktail del bar, alle 23:30 l’artista australiano Ben Frost cha incantato il pubblico con i suoi suoni profondi e con la scenografia sognante. Un’esperienza celestiale. L’artista quarantaduenne, che precedentemente si è esibito sul palco del C2C a Torino, non ha deluso le aspettative aprendo la pista ad una delle performance più attese della serata, ovvero quella di Caterina Barbieri.

Finito, infatti il live di Frost, il pubblico ha invaso il dancefloor, facendo raggiungere allo spazio la massima capienza in attesa dell’arrivo della beniamina italiana.

Con la sua solita e riconoscibile posa in tre quarti e con il suo immancabile modulatore, l’artista Caterina Barbieri ha suonato divinamente un mix di tracce prese dai suoi due ultimi album “FANTAS” e “SPRIT EXIT”. Il particolare che rende il tutto davvero inebriante è il tocco artistico dato dai visual prodotti da Ruben Spini, un insieme di paesaggi estetici e onirici che nessun altro, a parte lui, avrebbe saputo inventare.

Da una performance dalle sonorità sognanti, si passa ad un live concreto ed energico. Parliamo, infatti, dei successivi Giant Swan. Il duo inglese è stata la vera sorpresa di questo evento. Il live messo in scena da loro è la rappresentazione perfetta del framework dell’evoluzione della techno UK, dagli anni ‘90 fino ad oggi. Immaginatevi lo spirito del punk trasposto in un’elettronica scomposta e adrenalinica a base di macchine analogiche, filtri e attitudine low-fi, luddista quanto basta per fare a pezzi i cliché della techno contemporanea.

Seguendo questa onda, il b2b tra Skee Mask e Zenker Brother, ha concesso una naturale prosecuzione naturale, a rimarcare lo studio attento e puntuale della timetable dell’evento. Questo ha, forse, un po’ deluso le aspettative di tutti coloro che erano lì in attesa di un po’ di Jungle e DnB, tutti generi nelle corde del trio. Questa performance ha concluso la ricca giornata del venerdì, stanchi dal ballo, ma desiderosi di potere proseguire nel viaggio targato Robot.

Caterina Barbieri al Robot Festival Credit Photo Roberto Deva

Il ROBOT chiude l’edizione con un sabato esplosivo

L’ultimo giorno vede come una delle protagoniste del festival un’ipnotica LUCE CLANDESTINA, che con i suoi beat rallentati, influenze darkwave, e miscele non convenzionali di tribal, dub, cosmic e techno, ci regala un set onirico, contemplativo, left field e sperimentale, in una location morbida come la Baia del Dumbo.

Ci siamo spostati, poi, nel main stage, al Binario Centrale, dove Pantha du Prince ci ha accompagnato in un viaggio sonoro, che dal vivo si arricchisce di immagini, video, luci e costumi per dar vita a uno show immersivo e ipnotico. L’artista lascia scorrere questo loop di suono applicandone le variazioni modali a poco a poco, caratteristica propria della musica indiana, talvolta anche dell’organum medievale.

Un viaggio sentito che ci prepara ad accogliere l’esibizione più synth pop del duo francese Miss Kittin & The Hacker, che ripropongono in chiave techno un vecchio genere, l’electroclash, che da fine anni ‘90 ha incendiato dancefloor alternativi e cambiato la storia della musica elettronica.

La magistrale chiusura del re della techno Laurent Garnier ci ha catapultato divinamente alla fine di questo viaggio sonoro, mistico ed attento alle sfumature musicali.

Contemporaneamente, al TPO, seppur con un’affluenza e una capienza minore, l’esperienza dancing è riuscita ad esaltare le aspettative. Dopo la devastante performance dei Brutal Casual, che hanno letteralmente devastato diversi strumenti, i Phelimuncasi hanno celebrato la forma più pura di gqom africana. Il trio composto dai vocalist Malathon, Makan Nana e Khera che si sono fatti notare grazie ai loro due album pubblicati su una delle etichette del momento, la “Nyege Nyege tapes, hanno scosso il groove del TPO capitaneggiando il riot che si consumava tra il pubblico.

Dai ritmi africani si passa ai suoni tipici UK offerti dal b2b targato TSVI e Object Blue. Un set che sinuosamente si è mosso tra le rive di generi come dub, bass, breakbeat. Un’altalena di emozioni comparabile alle più vorticose montagne russe culminata a suoni old school jungle e con l’abbraccio dei due con Crystallmess che di lì a poco avrebbe proseguito con l’ultimo set della notte.

Quell’abbraccio, che suonava più di benedizione e buon auspicio per la performance, deve aver di sicuro caricato la francese Christelle Oyiri, che di fatti ha lasciato tutti a bocca aperta con un set dai ritmi accelerati, come dimostrato da questa traccia con cui lei ha dato via alle danze.

A suon di hardcore, footwork e grime, l’artista, dopo aver dato dimostrazione di una tecnica di mixing eccellente, ha deciso di lasciar il pubblico sconcertato (positivamente), inserendo nell’ultima parte un piccolo estratto della quinta sinfonia di Beethoven, che ha raccolto il copioso numero di applausi e che ha decretato così la fine delle azioni al TPO.

Una precisazione sul tema e l’atmosfera del festival

Abbiamo iniziato dalle persone perché senza le persone noi non saremmo niente.” – Laurent Garnier

C’è una correlazione tra il clubbing e le trasformazioni sociali?

Questa è una delle domande che sono state poste a Laurent Garnier durante il talk di presentazione di “OFF The Records”, il docufilm che lo vede protagonista e di cui ormai abbiamo imparato quasi a memoria, come la bibbia della techno.

La storia del clubbing affonda le sue radici nel passaggio dalla musica dal vivo alla musica registrata su disco. Il progresso tecnologico è stata la linfa vitale di questo movimento, un processo inevitabile e inarrestabile. Una conquista rivoluzionaria, diremmo, che trasformò i club in veri e propri canalizzatori di porte della percezione, permettendo l’ingresso in un’altra dimensione temporanea, emozionante e carica di energia, dove poter godere delle sensazioni date dal ritmo e dalle luci e abbandonarsi ai piaceri del corpo e dell’anima.

Oggi il modo di vivere il mondo della notte non è più lo stesso di un tempo e il progresso tecnologico ha avuto di nuovo un ruolo determinante nel processo evolutivo del clubbing, spostando però questa volta le interazioni dalla dimensione sociale verso quella virtuale e individualista, con non poche conseguenze. Innanzitutto, è cambiato il rapporto con gli spazi. Se un tempo i club rappresentavano dei “nidi protetti”, delle “seconde case” dove scaricarsi e incontrare altri clubber in una situazione familiare ed intima, attualmente i locali sono sempre meno fonte di identificazione e neppure così indispensabili per vivere in prima persona degli eventi musicali.

Gli organizzatori del Robot hanno risposto positivamente ai cambiamenti sociali avvenuti negli ultimi anni, riavvicinando le persone al dancefloor, ricreando quella situazione familiare ed intima che stiamo perdendo con il passare del tempo.

Il tema principale di questa tredicesima edizione del Robot è stata la “decentrificazione”, sociale e collettiva. Questo nuovo modo di usare internet ci permette di sognare un futuro tecnologico più umano e che forse collegandoci fra di noi, facendo rete e decentralizzando il potere, potremo finalmente recuperare la nostra identità.

ROBOT #13 Credit Photo Stefan Paun

Una conclusione doverosa per un festival degno di nota

Il Robot, quindi, ha tutte le carte in regola per ricostruire una scena in una modalità un po’ meno miope e forse maggiormente attenta ai bisogni e alle attitudini attuali di una società in continua evoluzione, sempre più digitalizzata, ma allo stesso tempo anche più insicura e individualista.

In fin dei conti, la questione di fondo è semplice. C’è bisogno di far riscoprire alle persone delle emozioni, un senso di affiliazione e appartenenza, delle connessioni autentiche che tornino a farle sentire protagoniste e, tutto sommato, meno sole.

In conclusione, dopo questo lungo report, l’edizione numero 13 del Robot è stata un mix di follia, artisti, suoni, luoghi ed emozioni: un insieme di tutto quello che rende una città come Bologna, la capitale creativa d’Europa per un weekend e non solo. L’evento ha dimostrato quanto sia la musica la costante della creatività e del successo di un progetto che ha coinvolto ospiti e pubblico, unendo unito le più disparate discipline.

 

Ci vediamo l’anno prossimo.

Vito D’Alessandro

Flavia Nitto

Lorenzo Tucci