A quanto pare le critiche alla distribuzione delle royalties da parte dei servizi di streaming musicale non sono state a cuore solo a Jay Z.
Il problema delle royalties c’è eccome. Non è un caso sicuramente che dopo le accuse ricevute da artisti come Patrick Carney dei Black Keys e molti altri big del panorama mondiale, non ultimo Trent Reznor dei Nine Inch Nails qualche giorno fa (tra l’altro in evidente conflitto di interessi, visto il suo ruolo di chief creative officer di Apple Music), non è un caso comunque che Spotify, Youtube & Co. siano corsi ai ripari partecipando a un’iniziativa volta, stando alle parole del co-fondatore del progetto, Panos Panay, alla creazione di una “architettura digitale condivisa per il business musicale moderno”.
L’iniziativa, che coinvolge Youtube, Spotify, Soundcloud, Universal Music, Sony Music, Warner, Netflix, ma anche servizi e aziende meno conosciute come Tunecore o CD Baby (un elenco completo dei sottoscrittori qui), verrà realizzata dal Berklee College of Music’s Institute for Creative Entrepreneurship in collaborazione con il MIT Media Lab ed ha il nome di OMI, acronimo di Open Music Initiative.
L’intento è di creare una piattaforma open-source che permetta di migliorare il monitoraggio (e il compenso relativo ai diritti d’autore quindi) delle riproduzioni di un’opera.
Il tutto sotto l’egida delle menti, stando a quanto riportato sul sito del progetto “neutrali” e “accademiche”, delle due istituzioni universitarie.
La piattaforma al momento è in via di sviluppo e sta inoltre cercando attivamente partnership con artisti, aziende, istituzioni accademiche e organizzazioni dell’industria musicale e dei media (candidature qui).
Da parte nostra vorremmo suggerire alla benemerita SIAE (e anche alla giovane Soundreef) di partecipare all’iniziativa, ma ci accontenteremmo anche di sapere che ne pensano invece di perdere tempo (e soldi) in inutili schermaglie.
Peggio di Tidal, caro Jay Z, non potrà andare.
Nicolò Matteucci