fbpx

Questa notte la notizia ha fatto presto a diffondersi nonostante l’ora tarda, perchè Robert Miles è un nome importante per moltissimi. E’ scomparso nella notte a Ibiza, per una malattia mai annunciata.

Per chi scrive e sicuramente per un’infinità di ragazzi della mia stessa generazione, Robert Miles è “Children” e “Children” è Robert Miles. Inevitabile citare il brano più famoso del DJ italiano non tanto per il suo successo in tutto il mondo – disco d’oro e di platino, restato a lungo nelle classifiche di decine di paesi e in vetta in dodici di questi, e nel tempo si sono susseguite un’infinità di versioni alternative e remix, di cui diversi attribuiti a Miles stesso – quanto per il suo significato.

Per i nati negli anni ’80, “Children” è stato un fulmine al centro di un decennio e al contempo al centro dell’infanzia. E con un titolo così, tutto torna al suo posto e parla esattamente di noi. Difficile anche scollegare il brano dal suo video: era infatti il 1995, quando le prime anteprime iniziavano a circolare su MTV e rimanevamo a guardare la bambina che a sua volta guardava dal finestrino.

Il video sicuramente facilita l’empatia, perchè lo scenario è uno spaccato praticamente universale dell’essere bambini, in tutta la sua normalità e dolcezza. Ma veramente quel brano tutti siamo in grado di ricordarlo, di canticchiarlo, di riconoscerlo immediatamente come un ricordo a cui siamo affezionati da sempre. Piaceva a molte persone diverse, persino ai metallari, o ad altre categorie di musicofili molto lontane dalla musica dance.

“Children” è universale anche perchè di una semplicità disarmante: beat, basso in levare, strings, ogni tanto l’arpeggio, e quel meraviglioso giro di pianoforte che solo da un’opera chiamata “Dreamland” poteva provenire. Quando penso agli anni ’90, penso a quel suono. In quel decennio fondamentale, per un bambino che per ovvi motivi non frequenta club, discoteche e locali del genere, la musica arriva dalle radio, dai canali televisivi musicali, da amici più grandi e niente di più.

Non c’era YouTube, nemmeno internet come lo conosciamo oggi. L’esperienza di quel brano era limitata alla fortuna, quando capitava, come quando in lontananza lo si sentiva dall’autoradio di qualche macchina d’estate al mare. E si lega a quei ricordi, a quel periodo “dreamy” proprio come il genere di Robert Miles, che praticamente detiene la narrazione di un’infanzia che attinge solo a bei ricordi, nel momento in cui ci si abbandona ai toni uplifting di “Children”. Per questo solo noi possiamo intenderla in questo modo così prezioso e unico nella storia.

E’ quindi un capolavoro per chi è nato prima e dopo, anche se non ha vissuto quella aurea “congiunzione” temporale, ma per noi che eravamo piccoli nei ’90 non è solamente un brano leggendario: è la traduzione in musica di qualcosa che ha radici profonde e indelebili. E’ la colonna sonora di chi negli anni ’90 era bambino, ed è una colonna sonora perchè tu non mettevi in play la traccia quando volevi, ma era quella traccia che aleggiava ovunque, si palesava senza il tuo controllo, e tu ti imbattevi in lei mentre facevi altro o andavi in giro. Il suo titolo è la perfetta chiusura del cerchio: sembrava già tutto stabilito, sembrava scritto nel futuro che quel brano diventasse un inno al centro di una decade, al centro della nostra infanzia.