A poco meno di due decenni di distanza ripercorriamo la storia e la musica di Tourist, l’acclamatissimo album di uno dei musicisti contemporanei di maggior successo.
Vi sfido: tra tutta la musica di cui avete memoria, tra tutti gli album che vi sono passati in rassegna, tra tutti gli EP, tutti i brani di in una vita; ne potete conservare da qui per il futuro solo una ristrettissima manciata (non più numerosi delle dita di una mano) e senza avere possibilità di ritirarvi da quest’ardua scelta. Un contesto quasi claustrofobico, vero, ma continuate a immaginare la situazione con molta leggerezza e lasciate che i vostri più intimi gusti scavino tra quelle che sono le profonde preferenze.
L’autore di queste parole, dal canto suo, dopo tempo e tempo di divertita riflessione, arriverebbe a scoprire sul tavolo il seguente poker tra interi album e singoli brani: la prima carta sarebbe Grinnin’ In Your Face del leggendario delta blues-man Son House – non potrei mai escludere uno dei più famosi testi scritti dal primo vero maestro dal capolista dell’infame Club 27, seguirebbe immediatamente l’omonimo album dei Santana, primo vero studio-album prodotto nel 1969 e presentato lo stesso anno a Woodstock nella memorabile performance che ha visto coinvolta tutta la formazione originaria. Cito poi l’EP che consacrò il battessimo di Robert Hood sotto le vesti “Floorplaniane”: Funky souls si vede selezionato non solo in virtù dell’emozione che riesce a scaturire – quel “Sisters & brothers who love each others” a ripetizione quasi alienanti attribuisce una carica unica nel genere – ma anche per aver custodito il campione di un brano contenuto in uno di quei tanti album esclusi a doloroso mal in cuore (“Jazzmatazz vol.2”), un modo alternativo duqnue per compensare la mancanza di Mc GURU.
Quarto asso, indovinate un po’, non poteva che essere quel blockbuster discografico che fu all’epoca “Tourist”, co-prodotto tra St Germain e una nutrita squadra di incredibili musicisti che a fine di questo articolo di vedranno elencati.
Ufficialmente, Tourist è il terzo dei cinque LP rilasciati dall’incredibile artista francese, uno dei più prolifici e rappresentativi esponenti di quel crossover artistico tra acid jazz, house e lounge music; mai ponderato con tanta maestria da un musicista diverso da Ludovic stesso. Prima di arrivare al primo long player della rassegna, la sua carriera è costellata di svariati EPs concentrati soprattutto tra il 1992 e 1995: tenete bene a mente quest’ultima data poiché proprio nel ’95 si materializzerà a tutti gli effetti la genesi di “Boulevard (The Complete Series)”, dall’unificazione di tre singoli EPs precedenti ma pubblicati tutti nello stesso anno dalla F Communications (etichetta fondata un anno prima da Eric Morand e Laurent Garnier che darà il marchio alla maggior parte delle releases di quella prima metà di decade). La tracklist del lavoro integrale altro non è che la proposta dei brani contenuti nelle singole pubblicazioni unitarie Boulevard 1/3, Boulevard 2/3 e Boulevard 3/3. Unico assente all’appello è “Percussion”, una strumentale di sole percussione stampata sul B2 del terzo capitolo.
Il 1999 poi, sarà l’anno di “Ludovic Navarre AKA St Germain – From Detroit To St Germain”, un greatest-hits piuttosto che un album nel significato più proprio del termine. In questa raccolta infatti configurano tracce come “Deep In It”, “Soul Salsa Soul”, “My Mama Said”, “Dub Experience”, “Walk So Lonely”, tutte riprese dalle prime pubblicazioni di decennio e a loro volta (ri)mischiate già tra altri EPs.
Finalmente, il 2000 e il tempo di Tourist.
In questa settimana di 17 anni fa, la leggendaria Blue Note – metaforicamente: l’Underground Resistance del Jazz – dà alla luce uno dei prodotti musicali più alti che questo secolo ricordi. Seppur è vero che Boulevard raccolse solo critiche profondamente entusiaste, il successo che registrò Tourist fu ancora maggiore; ho sempre reputato quest’album un inarrivabile capolavoro per quella formula al limite del maniacale profusa nella ricerca di un asset equilibrato e sinergico tra i così tanti stili che confluiscono all’interno
Già solo la cover-art giustifica a pieno la spesa: Tourist prende in prestito lo scatto del fotografo parigino Charles Lansiaux intitolato “Station du touriste St Germain” – tutt’ora custodito in mostra tra i corridoi del Museo Carnavalet – e impreziosito da una grafica che si limita ad un solo arricchimento cromatico senza che intacchi la naturalezza e la quotidiana spontaneità dell’opera originale.
Questa forte rigidità estetica compressa tra bianco, argento, grigio e nero spezzata solo da qualche timida trasparenza tinta di giallo, non troverà mai conferma nel suo concreto contenuto: se le orecchie si dovessero solo fidare di quanto gli occhi testimoniano, ci si potrebbe aspettare un’esperienza d’ascolto altrettanto ricca ci contrasti quando invece è esattamente il contrario; è paradossale infatti constatare sotto questo punto di vista una così camaleontica miscela di generi ed influenze presentate però a gradazione così dolce e smussata. Delle nove tracce in list nessuna si ripete alle altre, un anticonformismo endogeno che va al di là di quel suono, di quella batteria o di quel riff di chitarra, ma si estende anche (se non soprattutto) all’intero immaginario allusivo di ciascuna produzione garantendo terreno fertile a tutto un ventaglio di sensazioni registrate sulla pelle. Si prenda la track di apertura ad esempio, “Rose Rouge”, oggetto nel corso degli anni di un infinito numero di bootleg, edit e remix più o meno ufficiali (Joris Voorn e Rhadoo, ad esempio) e più o meno veramente valorizzanti (nel secondo insieme di casi, questi tentativi si sono rivelati degli “stupri” indegni al lavoro di Navarre). Trovo che questo sia il brano che meglio si parafrasa rispetto alla copertina stessa, una produzione che richiama la quiete malinconia del paesaggio rappresentato: come prima erano il bianco, il grigio e il nero a dettare il dominio della tavolozza, qui lo stesso ruolo è assolto (seppur di tela non si parla, ma al massimo di pentagramma) dalla percussione del Ride, dal loop di gran piano e dall’invincibile “I want you to get together, put you hands together one time”, citazione campionata dal brano “Woman Of The Ghetto”, scritto ed eseguito da Marlena Shaw, una delle voci nere più belle e samplizzate della storia; allo stesso modo, il giallo-di-rottura per RR si candida essere l’esecuzione in forte chiave acid di tromba e sassofono, suoni che squarciano la trama fino a quel momento intrecciata e donano al brano la sua più tipica e distinguibile identità.
Stesso disco, altro lato: “Montego Bay Spleen” è il primo dei meeting più lounge che Tourist riserva. Predominanti qui sono batteria e soprattutto chitarra, le sei corde si vedono accompagnate da una co-struttura elettronica che ben si riserva dallo sconfinare il perimetro “d’uso” cui questa destinata. Il B side regala altro monumentale classico, il flauto più famoso di questi quasi 20 ultimi anni: “So Flute” ha avuto un destino molto simile a quello di Rose Rouge, ma come nel caso della prima, nessuno di questi contenuti è riuscito anche solo ad avvicinarsi all’originale (nb: riferendoci sempre agli unofficial).
Rimane uno dei brani con maggiore carattere non solo rispetto le altre tracce dall’album ma anche tra l’intera discografia a nome St Germain, un carattere che neanche viene eccessivamente dallo strumento in titolo, bensì dalla tastiera, presente per tutti gli otto minuti e mezzo della riproduzione, dei quali: tre da coprotagonista e il restante tutto di sua appartenenza. Un anno dopo dall’uscita venne anche diretto un breve video animato ufficiale girato sullo short-cut della traccia, ricordo che mi affascinò particolarmente poiché nonostante la sua abominevole semplicità (niente più di un omino stilizzato che trascorre una comune serie di esperienze giornaliere) sintetizzava perfettamente quella spensieratezza e quella positività d’animo che So Flute è sempre riuscita a trasmettere.
Di “La Goutte D’or” mi piace immaginare che rappresenti una ricerca di sintesi tra i tre brani precedenti (contando che stiamo svolgendo quest’analisi seguendo esattamente l’ordine della tracklist), c’è molto infatti di quanto già digitato: la contaminazione elettronica – sottile e discreta – di Montego Bay Spleen e lo sfiato acid di RR mano-nella-mano a un flauto dall’effetto molto evanescente ed etereo. Arriviamo al turno di “Sure Thing” (secondo e ultimo brano a godere di un videclip ufficiale), un immenso capolavoro a sé stante – traccia che mi sentirei di ribattezzare più che questione di certezza, una questione di anima e spirito; la stampa C1 è uno degli anthem più belli ed emozionanti di tutto Tourist: l’arpeggio “resofonico” volutamente distorto, il timbro di Hooker e quella così specifica intonazione smooth, fanno di questo brano uno squisito tributo alla carriera del maestro John Lee H. Molti erroneamente credono che Sure Thing sia in realtà una collaborazione tra l’artista francese e il bluesman statunitense, nulla di più falso: all’epoca era già gravemente malato e difatti sarebbe morto esattamente un anno dopo, all’invidiabile età di 83 anni, di cui 50 all’insegna di una carriera che definire gloriosa sarebbe riduttivo. Quello che ha fatto Ludovic è stato campionare il brano “Harry’s Philosophy”, composto da due pesi massimi quali John e Miles Davis (stiamo parlando di Storia se qualcuno non l’avesse ancora capito) molti anni prima – una produzione di cola chitarra + voce che vi raccomandiamo caldamente.
Arriviamo a “Pont Des Arts”, con ogni certezza, il brano più “ballabile” dell’intero album. Il titolo allude alla Passerelle des Arts parigina, un ponte che collega la sponda della Cour Carrée del Louvre a quella de l’Institut de France, battezzato così per essersi prestato spesso alle rappresentazione di pittori più o meno amatoriali. Non che sia un apprezzamento di genere definitivo, ma questa è la mia traccia preferita di tutto Tourist: quella tastiera è praticamente il tutto: è energia, è passione, è arte, è coinvolgimento, è musicalità ed è quell’anello che congiunge l’asserzione più elettronica alla piattaforma acustica. A mia percezione, la perfetta incarnalità di quello che il Nu-Jazz dovrebbe stare a rappresentare.
Chiudiamo con l’ultimo side, l’unico di quelli già indagati che accoglie tre stampe sulla sua superficie.
Di “Latin Note” ho sempre apprezzato tantissimo più che il granpiano su tastiera, la concitazione e lo stato di frenesia delle percussioni, mai così “cavalcanti” come adesso, dove effettivamente credo resusciti la suggestione latina del brano; un’eccitazione che fin dal primo ascolto ho percepito in gran “contrasto” (innocuo e benevolo si intende, in virù di quanto riflettuto prima) con i ritmi decisamente più contenuti e chill di “Land Of…”.
Una volta lessi il commento di un utente (su Discogs, credo) che recitava, traducendo e parafrasando: “Land Of… è l’immagine in note di tutta la mia quotidianità mattutina in un soleggiante giorno di primavera”, gli ho dovuto dare assolutamente ragione tanto che non saprei mini-recensire questo brano con parole più significative.
Il viaggio di Tourist si chiude tra la batteria, la tastiera e il basso di “What You Think About…” – nessuna delle precedenti otto tracce avrebbe accompagnato l’ascolto di chiusura meglio di questa: un “arrivederci” mitigato e gentile che conclude i sipari lasciando con la consapevolezza di aver appena prestato le orecchie, di esser stati appunti turisti, a qualcosa di irripetibilmente vincente e sofisticato.
Soel Memento (2003) e St Germain (2015) non sarebbero mai potuti esistere se prima non fosse arrivato Tourist. Profondamente influenzati da questo lavoro, gli ultimi due album hanno riconfermato quell’alchimia che ha radicato il volto e la musica di Ludovic sui grandi schermi conquistando bacini di generazioni demograficamente così lontane tra loro ma accomunate da un’unica posizione.
Strumentisti che presero parte alla produzione di Tourist: Pascal Ohze (Tromba), Edouard Labor (Sassofono e Flauto), Alexandre Destrez (Tastiere), Idrissa Diop (Tamburo parlante), Carneiro (Percussioni), Claudio “Cacao” De Qeiroz (Viola di Bordone)