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Si celebrano oggi i vent’anni di un album storico, epocale, che non assomiglia a niente tra ciò che è venuto prima e dopo: “The Fat of the Land”.

L’arco dei Prodigy è stato enorme. Oggi riempiono qualsiasi venue e sono in un’evidente fase di discesa. Discesa perchè in realtà, dopo che sforni un disco come “The Fat of the Land“, è difficile replicare. Per chiunque.

E’ seguito al bellissimo “Music for the Jilted Generation”, sporco, acerbo, squisitamente cyberpunk, che però ancora non era la vetta massima del gruppo inglese. A vedere oggi le registrazioni dei concerti di quell’epoca, si nota subito come la musica elettronica era completamente diversa.

Nei live dell’epoca, quando “The Fat of the Land” era materiale mai sentito prima, così nuovo da essere ancora bollente, vediamo praticamente un gruppo di punk su un palco enorme, dinnanzi a una folla oceanica in delirio totale. Loro che sbraitano insulti fuori dalle loro parti cantate, e addirittura l’uso delle chitarre elettriche e della batteria – cosa oggi sempre più rara.

La loro musica, infatti, malgrado puramente elettronica, aveva molto dell’eredità del punk. Prima fra tutte la provenienza geografica del trio composto da Liam, Maxim e Keith. Come approccio, come estetica, come intenzionale e provocatoria rozzezza.

Ormai sono iconici gli sguardi spiritati di Maxim Reality, la lingua di Keith Flint, il suo accento, la parlata nevrotica, i beat spezzati con quell’anima 90’s, con campionamenti unici, come il suono delle spade preso da un film di kung fu per arricchire in maniera geniale la ritmica di “Breathe”. E poi canti sacri immersi in violenti bridge, mantra inseriti tra le strofe..

Un disco come “The Fat of the Land” incarna un momento unico, la chiusura di un millennio, tutto il marcio e l’assurdo del mondo post-moderno.

Più di dieci milioni di copie vendute in tutto il mondo, più di due milioni e mezzo solo negli Stati Uniti. Una perla nera irreplicabile, indistruttibile. Un destro in bocca al mondo intero.

Buon compleanno.